Il contributo prende le mosse dalla considerazione che accanto alla tradizionale ricostruzione dello statuto di beni culturali, ancorato al dato oggettivo del bene, della sua utilitas e destinazione e del relativo regime a valenza pubblicistica, rileva anche un approccio di tipo soggettivo, che considera i soggetti cui spettano i beni o che fruiscono di essi e, dunque, la loro percezione e il significato che ne attribuiscono. Questo concetto è rimasto in ombra negli studi in materia, sebbene esso fosse presente nella stessa dottrina (in particolare di Pugliatti) che ha portato all’elaborazione della nozione base di bene culturale. In queste ricostruzioni è prevalsa l’idea della coesistenza nel medesimo bene di plurimi valori e utilità cui corrispondono interessi giuridicamente rilevanti e, dunque, la configurazione del bene culturale dal punto di vista del supporto materiale di uno o più interessi di natura patrimoniale, ma anche di interessi di natura immateriale e pubblica, quale quello propriamente culturale. In altre parole, dal lato del privato gli interessi tutelabili sono solo quelli patrimoniali, mentre gli interessi non patrimoniali (gli interessi culturali) acquistano rilevanza solo sul versante pubblico. Una simile costruzione, se è essenziale a spiegare le potestà che la pubblica amministrazione esercita in ordine a beni che siano in ipotesi anche in regime di appartenenza privata, non spiega un tratto che, sempre più spesso, si ricava dall’osservazione della concreta dinamica degli interessi in materia: e cioè l’emergere di ‘pretese’ – anche solo identitarie – in ordine a questi beni che non sono più solo di tipo patrimoniale, ma che non per questo si identificano senz’altro con quelle pubbliche incarnate nelle potestà riservate all’amministrazione istituzionalmente deputata alla tutela e ai connessi strumenti tipici, essenzialmente vincolistici. Invece, il punto di vista soggettivo è apparso nascosto nelle pieghe interne della valutazione delle soprintendenze e assorbito dalla c.d. discrezionalità tecnica, oppure incarnato, per estremo paradosso, dall’universo dei fruitori (“la “fruibilità pubblica”), quell’indistinto le cui specifiche modalità di aggregazione costituiscono un accidente storico, rilevando essenzialmente la certezza del suo esistere anche per il futuro: insomma concretissimi e storici apparati soprintendizi, da una parte, e l’umanità (astorica o le sue proiezioni) dall’altra, in una tensione che lega gli apparati e le generazioni, i ‘custodi’ dei beni e i loro potenziali fruitori. In questa dialettica sono rimaste fatalmente occultate le collettività, le istituzioni e i soggetti concreti, i protagonisti in altre parole di quella stessa nozione di fruizione che resta pur sempre un processo di conoscenza qualificata e compiuta di realtà che sono “testimonianze di civiltà”. Il fattore “emozionale”, recepito dal dato normativo soprattutto nell’attuale disciplina del paesaggio (definito come espressivo di identità, art. 131 d.lgs. 42/2004), ovvero di specifici beni paesaggistici (come i centri storici) o di determinati beni culturali che, prescindendo dalla qualificazione vincolistica non possono che basarsi sulla percezione dei fruitori, si basa necessariamente su filtri che non possono essere più solo né gli apparati, né collettività umane indistinte, assumendo invece rilievo giuridico ormai le concrete collettività portatrici di visioni identitarie che, per definizione, sono multiple, separate, non generali, sono proprie di chi vive in un dato territorio e che non mutano di qualità ma, al più, di dimensione. Questa necessaria integrazione di approcci appare il dato mancante nella disciplina dei beni culturali, ed è intorno a questa esigenza che è stata condotta l’analisi, che ha riguardato non soltanto il diritto dei beni culturali, ma anche altri settori, come il diritto urbanistico e il diritto delle attività commerciali, in cui quel “fattore emozionale” può trovare ulteriori traduzioni (si pensi alla idoneità, riconosciuta anche dalla giurisprudenza, degli strumenti urbanistici comunali di accordare tutela ai beni di interesse culturale ovvero alla tutela delle attività commerciali e artigianali svolte in locali storici).
Il diritto all'identità minore. Beni culturali e tutela degli status
DE GIORGI, Gabriella
2007-01-01
Abstract
Il contributo prende le mosse dalla considerazione che accanto alla tradizionale ricostruzione dello statuto di beni culturali, ancorato al dato oggettivo del bene, della sua utilitas e destinazione e del relativo regime a valenza pubblicistica, rileva anche un approccio di tipo soggettivo, che considera i soggetti cui spettano i beni o che fruiscono di essi e, dunque, la loro percezione e il significato che ne attribuiscono. Questo concetto è rimasto in ombra negli studi in materia, sebbene esso fosse presente nella stessa dottrina (in particolare di Pugliatti) che ha portato all’elaborazione della nozione base di bene culturale. In queste ricostruzioni è prevalsa l’idea della coesistenza nel medesimo bene di plurimi valori e utilità cui corrispondono interessi giuridicamente rilevanti e, dunque, la configurazione del bene culturale dal punto di vista del supporto materiale di uno o più interessi di natura patrimoniale, ma anche di interessi di natura immateriale e pubblica, quale quello propriamente culturale. In altre parole, dal lato del privato gli interessi tutelabili sono solo quelli patrimoniali, mentre gli interessi non patrimoniali (gli interessi culturali) acquistano rilevanza solo sul versante pubblico. Una simile costruzione, se è essenziale a spiegare le potestà che la pubblica amministrazione esercita in ordine a beni che siano in ipotesi anche in regime di appartenenza privata, non spiega un tratto che, sempre più spesso, si ricava dall’osservazione della concreta dinamica degli interessi in materia: e cioè l’emergere di ‘pretese’ – anche solo identitarie – in ordine a questi beni che non sono più solo di tipo patrimoniale, ma che non per questo si identificano senz’altro con quelle pubbliche incarnate nelle potestà riservate all’amministrazione istituzionalmente deputata alla tutela e ai connessi strumenti tipici, essenzialmente vincolistici. Invece, il punto di vista soggettivo è apparso nascosto nelle pieghe interne della valutazione delle soprintendenze e assorbito dalla c.d. discrezionalità tecnica, oppure incarnato, per estremo paradosso, dall’universo dei fruitori (“la “fruibilità pubblica”), quell’indistinto le cui specifiche modalità di aggregazione costituiscono un accidente storico, rilevando essenzialmente la certezza del suo esistere anche per il futuro: insomma concretissimi e storici apparati soprintendizi, da una parte, e l’umanità (astorica o le sue proiezioni) dall’altra, in una tensione che lega gli apparati e le generazioni, i ‘custodi’ dei beni e i loro potenziali fruitori. In questa dialettica sono rimaste fatalmente occultate le collettività, le istituzioni e i soggetti concreti, i protagonisti in altre parole di quella stessa nozione di fruizione che resta pur sempre un processo di conoscenza qualificata e compiuta di realtà che sono “testimonianze di civiltà”. Il fattore “emozionale”, recepito dal dato normativo soprattutto nell’attuale disciplina del paesaggio (definito come espressivo di identità, art. 131 d.lgs. 42/2004), ovvero di specifici beni paesaggistici (come i centri storici) o di determinati beni culturali che, prescindendo dalla qualificazione vincolistica non possono che basarsi sulla percezione dei fruitori, si basa necessariamente su filtri che non possono essere più solo né gli apparati, né collettività umane indistinte, assumendo invece rilievo giuridico ormai le concrete collettività portatrici di visioni identitarie che, per definizione, sono multiple, separate, non generali, sono proprie di chi vive in un dato territorio e che non mutano di qualità ma, al più, di dimensione. Questa necessaria integrazione di approcci appare il dato mancante nella disciplina dei beni culturali, ed è intorno a questa esigenza che è stata condotta l’analisi, che ha riguardato non soltanto il diritto dei beni culturali, ma anche altri settori, come il diritto urbanistico e il diritto delle attività commerciali, in cui quel “fattore emozionale” può trovare ulteriori traduzioni (si pensi alla idoneità, riconosciuta anche dalla giurisprudenza, degli strumenti urbanistici comunali di accordare tutela ai beni di interesse culturale ovvero alla tutela delle attività commerciali e artigianali svolte in locali storici).I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.