Quanta parte della performance è spiegata dall’asset allocation strategica? Quali sono i fattori che giustificano il rendimento conseguito da un fondo? Nella gestione del portafoglio è stata prevalente la componente di stock/bond picking o di market timing? Quanto ha inciso sulla performance il timing dei conferimenti e dei riscatti? Qual è l’incremento di rischio derivante dalle scelte di asset allocation tattica? Qual è il contributo offerto dai singoli gestori all’interno di un portafoglio multimanager? Queste sono alcune delle domande che hanno guidato e stimolato la ricerca degli accademici e dei practitioners, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, ossia da quando le intuizioni della Modern Portfolio Theory hanno cominciato ad introdurre nel settore dell’asset managament una crescente diffusione della modellistica quantitativa a supporto delle scelte di gestione di portafoglio. La cultura del benchmark, che si è diffusa con particolare vigore in Italia a partire dal 1998 con l’obbligo di esplicitazione del parametro oggettivo di riferimento per le gestioni patrimoniali e con la succesiva estensione dello stesso (unico caso nel mondo) all’industria dei mutual funds, affonda infatti le sue radici nelle ricerche di Sharpe e nello sviluppo del Capital Asset Pricing Model (Capm) che teorizzavano il ruolo del market portfolio come punto di riferimento per la costruzione di portafogli efficienti. Tralasciando il filone della letteratura sviluppatasi attorno alla costruzione di misure di risk-adjusted performance, che sebbene continui a proporre nuovi indicatori porterebbe lontano dall’oggetto della presente ricerca, possiamo identificare nel lavoro di Jensen un primo tentativo di definizione di un modello finalizzato a distinguere il contributo alla performance offerto dallo stile e dall’abilità del gestore. Il modello monofattoriale proposto da Jensen ha ispirato sia i contributi di Treynor–Mazuy e di Hendrikson–Merton finalizzati all’identificazione dell’abilità di market timing e quello di Fama che invece ha proposto una metodologia per scomporre l’abilità di stock picking. Il denominatore comune di questi contributi è quello di prendere come riferimento il market portfolio secondo l’intuizione originaria di Sharpe e di focalizzare l’analisi sulla componente gestionale relativa al solo comparto azionario. Una seconda pietra miliare nel campo delle ricerche in materia di performance attribution è rappresentato dallo studio di Brinson che senza dubbio è stato il riferimento bibliografico più citato a sostegno della rilevanza dell’asset allocation strategica nello spiegare la performance di un portafoglio. Agli studi di Brinson si deve infatti la quantificazione della percentuale (oltre il 90%) di varianza imputabile alle scelte di asset allocation strategica nei portafogli di un campione di fondi pensione statunitensi. A partire dall’inizio degli anni novanta gli studi in materia di performance attribution si sono arricchiti di nuovi ed interessanti contributi che, grazie al contributo offerto dai practitioners più che dagli accademici, hanno messo in luce le carenze del modello à la Brinson. Si inseriscono in questo filone i lavori di Menchero (Vestek) relativi all’adozione di un approccio geometrico, quelli di Ankrim (Frank Russell) relativi all’introduzione di misure risk-adjusted ed all’introduzione della componente valutaria, quelli di Carino relativi all’adozione di una prospettiva multiperiodale. La nuova frontiera della performance attribution, in conseguenza della crescente diffusione a livello internazionale del multimanagement approach, è rappresentata dalla corretta identificazione del contributo offerto dal singolo gestore alla performance del portafoglio ed alla integrazione del risk budgeting nell’analisi di tali fenomeni.
Le metodologie di performance attribution nella gestione del risparmio
CUCURACHI, Paolo Antonio;
2005-01-01
Abstract
Quanta parte della performance è spiegata dall’asset allocation strategica? Quali sono i fattori che giustificano il rendimento conseguito da un fondo? Nella gestione del portafoglio è stata prevalente la componente di stock/bond picking o di market timing? Quanto ha inciso sulla performance il timing dei conferimenti e dei riscatti? Qual è l’incremento di rischio derivante dalle scelte di asset allocation tattica? Qual è il contributo offerto dai singoli gestori all’interno di un portafoglio multimanager? Queste sono alcune delle domande che hanno guidato e stimolato la ricerca degli accademici e dei practitioners, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, ossia da quando le intuizioni della Modern Portfolio Theory hanno cominciato ad introdurre nel settore dell’asset managament una crescente diffusione della modellistica quantitativa a supporto delle scelte di gestione di portafoglio. La cultura del benchmark, che si è diffusa con particolare vigore in Italia a partire dal 1998 con l’obbligo di esplicitazione del parametro oggettivo di riferimento per le gestioni patrimoniali e con la succesiva estensione dello stesso (unico caso nel mondo) all’industria dei mutual funds, affonda infatti le sue radici nelle ricerche di Sharpe e nello sviluppo del Capital Asset Pricing Model (Capm) che teorizzavano il ruolo del market portfolio come punto di riferimento per la costruzione di portafogli efficienti. Tralasciando il filone della letteratura sviluppatasi attorno alla costruzione di misure di risk-adjusted performance, che sebbene continui a proporre nuovi indicatori porterebbe lontano dall’oggetto della presente ricerca, possiamo identificare nel lavoro di Jensen un primo tentativo di definizione di un modello finalizzato a distinguere il contributo alla performance offerto dallo stile e dall’abilità del gestore. Il modello monofattoriale proposto da Jensen ha ispirato sia i contributi di Treynor–Mazuy e di Hendrikson–Merton finalizzati all’identificazione dell’abilità di market timing e quello di Fama che invece ha proposto una metodologia per scomporre l’abilità di stock picking. Il denominatore comune di questi contributi è quello di prendere come riferimento il market portfolio secondo l’intuizione originaria di Sharpe e di focalizzare l’analisi sulla componente gestionale relativa al solo comparto azionario. Una seconda pietra miliare nel campo delle ricerche in materia di performance attribution è rappresentato dallo studio di Brinson che senza dubbio è stato il riferimento bibliografico più citato a sostegno della rilevanza dell’asset allocation strategica nello spiegare la performance di un portafoglio. Agli studi di Brinson si deve infatti la quantificazione della percentuale (oltre il 90%) di varianza imputabile alle scelte di asset allocation strategica nei portafogli di un campione di fondi pensione statunitensi. A partire dall’inizio degli anni novanta gli studi in materia di performance attribution si sono arricchiti di nuovi ed interessanti contributi che, grazie al contributo offerto dai practitioners più che dagli accademici, hanno messo in luce le carenze del modello à la Brinson. Si inseriscono in questo filone i lavori di Menchero (Vestek) relativi all’adozione di un approccio geometrico, quelli di Ankrim (Frank Russell) relativi all’introduzione di misure risk-adjusted ed all’introduzione della componente valutaria, quelli di Carino relativi all’adozione di una prospettiva multiperiodale. La nuova frontiera della performance attribution, in conseguenza della crescente diffusione a livello internazionale del multimanagement approach, è rappresentata dalla corretta identificazione del contributo offerto dal singolo gestore alla performance del portafoglio ed alla integrazione del risk budgeting nell’analisi di tali fenomeni.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.