Il libro traccia la parabola dell’idea di bellezza nella storia della civiltà occidentale, a partire da quell’incunabolo da cui tutto dipende, il pensiero greco e di Platone in particolare, e da qui si snoda il percorso di ricerca che attraversa i più significativi momenti di condensazione del concetto, come il paradigma incentrato su quello che Tatarkiewicz chiama la «Grande Teoria» del bello, che poggia sull’idea di proporzione, fino alla tappa decisiva della Critica kantiana, secondo cui «è bello ciò che piace universalmente secondo concetto» e «senza alcun interesse». Di questa storia si presentano qui, oltre all’atto di nascita, le stazioni, i passaggi, le svolte: una, in particolare, quasi un presagio, ed è quella che fa riferimento a ciò che disse una volta, all’inizio del Cinquecento, il grande pittore tedesco Albrecht Dürer: «che cosa sia la bellezza, non lo so». Solo dalla messa in rapporto dell’estetica «classica» con le riserve e le obiezioni dell’orientamento analitico, le sparse e non sempre coerenti teorizzazioni del post-moderno acquistano rigore e dignità filosofica; e solo in relazione a quanto mettono in evidenza le riflessioni post-moderne sulla generale estetizzazione dell’esistenza nel mondo post-industriale – che ha fatto dell’arte una dimensione estetica integrale – acquistano senso e credibilità le intuizioni filosofiche che rilanciano la capacità “fenomenologica” dell’estetica di leggere e analizzare i sintomi che fanno del nostro tempo l’età dell’immagine e della spettacolarizzazione. La pratica delle arti, a cominciare dalle avanguardie storiche primonovecentesche, mostra un fenomeno di «eccedenza», anzi di «esplosione» dell’estetica fuori dai limiti istituzionali che le erano stati imposti dalla tradizione. L’«addio» all’estetica coincide con il tempo in cui la bellezza era confinata nel suo recinto, ora invece siamo di fronte all’esplosione che la vede trasfigurata e rimessa al centro. A questo processo di trasfigurazione non sfugge neanche la tradizione – di cui nell’ultimo contributo si offre un esempio locale particolarmente eloquente come il «tarantismo». L’estetizzazione diffusa allude ad aspetti, probabilmente, a scarsa densità estetica e di basso profilo, per cui occorrerebbe praticare un’«ontologia del declino», in cui il pensiero sappia aprirsi anche ad accogliere il senso non puramente negativo che l’esperienza dell’esteticità ha assunto nell’epoca della riproducibilità e della cultura di massa, ma è innegabile quella che Gadamer indica come la permanente «attualità del bello».
La bellezza tra arte e tradizione. Storia e modernità
PELLEGRINO, Paolo Tommaso
2008-01-01
Abstract
Il libro traccia la parabola dell’idea di bellezza nella storia della civiltà occidentale, a partire da quell’incunabolo da cui tutto dipende, il pensiero greco e di Platone in particolare, e da qui si snoda il percorso di ricerca che attraversa i più significativi momenti di condensazione del concetto, come il paradigma incentrato su quello che Tatarkiewicz chiama la «Grande Teoria» del bello, che poggia sull’idea di proporzione, fino alla tappa decisiva della Critica kantiana, secondo cui «è bello ciò che piace universalmente secondo concetto» e «senza alcun interesse». Di questa storia si presentano qui, oltre all’atto di nascita, le stazioni, i passaggi, le svolte: una, in particolare, quasi un presagio, ed è quella che fa riferimento a ciò che disse una volta, all’inizio del Cinquecento, il grande pittore tedesco Albrecht Dürer: «che cosa sia la bellezza, non lo so». Solo dalla messa in rapporto dell’estetica «classica» con le riserve e le obiezioni dell’orientamento analitico, le sparse e non sempre coerenti teorizzazioni del post-moderno acquistano rigore e dignità filosofica; e solo in relazione a quanto mettono in evidenza le riflessioni post-moderne sulla generale estetizzazione dell’esistenza nel mondo post-industriale – che ha fatto dell’arte una dimensione estetica integrale – acquistano senso e credibilità le intuizioni filosofiche che rilanciano la capacità “fenomenologica” dell’estetica di leggere e analizzare i sintomi che fanno del nostro tempo l’età dell’immagine e della spettacolarizzazione. La pratica delle arti, a cominciare dalle avanguardie storiche primonovecentesche, mostra un fenomeno di «eccedenza», anzi di «esplosione» dell’estetica fuori dai limiti istituzionali che le erano stati imposti dalla tradizione. L’«addio» all’estetica coincide con il tempo in cui la bellezza era confinata nel suo recinto, ora invece siamo di fronte all’esplosione che la vede trasfigurata e rimessa al centro. A questo processo di trasfigurazione non sfugge neanche la tradizione – di cui nell’ultimo contributo si offre un esempio locale particolarmente eloquente come il «tarantismo». L’estetizzazione diffusa allude ad aspetti, probabilmente, a scarsa densità estetica e di basso profilo, per cui occorrerebbe praticare un’«ontologia del declino», in cui il pensiero sappia aprirsi anche ad accogliere il senso non puramente negativo che l’esperienza dell’esteticità ha assunto nell’epoca della riproducibilità e della cultura di massa, ma è innegabile quella che Gadamer indica come la permanente «attualità del bello».I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.