Il contributo è volto a smentire l’affermazione, corrente in dottrina, per cui, con riguardo alla condizione degli impuberi, la giurisprudenza classica avrebbe distinto fra infantes, minori che non avessero ancora compiuto il settimo anno d’età, del tutto incapaci di compiere atti giuridici, e infantia maiores, minori fra i sette anni e l’età pubere, considerati parzialmente capaci. La relazione ha illustrato come invece, di regola, nelle fonti giuridiche di epoca classica, l’approccio alla minore età appaia orientarsi ad una verifica, caso per caso, della maturità individuale dell’impubere, supportata da determinati criteri-guida, con opinioni diversificate a seconda della fattispecie oggetto di discussione. Nel caso dei negozi a forma orale, il discrimine risulta ad esempio fissato dai giuristi alla luce della capacità o meno del minore di fari, di pronunciare correttamente i verba dell’atto (D. 46.6.6 Gai. 27 ad ed. prov.; Gai 3.106-109; Inst. 3.19.8-10; D. 44.7.1.12-13 Gai. 2 aur.; D. 45.1.141.2 Gai. 2 de verb. obl.; D.50.17.5 Paul. 2 ad Sab.; D. 50.16.209 Florent. 10 inst.); quanto all’effettiva comprensione della portata dello stesso, nel caso dei negozi verbis, si tratterebbe di circostanza su cui i giuristi (e dunque i privati) avrebbero iniziato ad interrogarsi solo successivamente (nel momento in cui si sarebbe cominciato a dare risalto anche alla voluntas sottostante agli atti giuridici). Analogo l’approccio giurisprudenziale per quanto relativo, ad esempio, alla hereditatis aditio (D. 29.2.9 Paul. 2 ad Sab.; D. 29.2.8.1 Ulp. 7 ad Sab.). Per quel che attiene, poi, a profili quali l’acquisto del possesso, parrebbe che alcuni giuristi ammettessero, in questo ambito, addirittura la capacità dell’infans (attesa l’interposizione dell’auctoritas tutoris), là dove altri iurisperiti avrebbero richiesto piuttosto la capacità, nel minore, di intendere l’atto. Che non si vertesse, nel caso in esame, sulla possibilità di fari da parte del minore discende dal fatto che i negozi fondati su una datio rei non richiedevano la capacità di esprimersi verbalmente; piuttosto (almeno a partire da una certa epoca in poi) l’indagine si dové fondare sulla reale sussistenza, nel fanciullo, dell’animus possidendi (C. 7.32.3 Decius, a. 250; D. 41.3.28 Pomp. 17 ad Sab.; D. 41.2.1.5 Paul. 54 ad ed.; D. 41.2.32.2 Paul. 15 ad Sab.; D. 41.2.32.2 Paul. 15 ad Sab.). Una ‘fissazione di criteri’ riguardo alla capacità intellettuale del minore potrebbe essere ascritta, al più, al tardo antico, quando diviene più difficile un accertamento caso per caso della maturità dell’impubere, e la crescente esigenza di formalizzazione si traduce nell’introduzione, in svariati ambiti dello scibile giuridico, di regole più rigide. I riferimenti che rinveniamo nella compilazione alla necessità del compimento del settimo anno di età sono infatti tardi, ed ascrivibili a prospettive particolari dei giuristi che ne fanno menzione (in soli due casi: Ulpiano in D. 26.7.1.2 e Modestino in D. 23.1.14). Arcadio e Onorio nel 407 (CTh. 8.18.8), e successivamente Valentiniano III nel 426 (CI 6.30.18), avrebbero fissato – in riferimento alla hereditatis aditio e alla adgnitio bonorum possessionis – la ‘fine dell’infanzia’ al compimento del settimo anno: la disposizione di Valentiniano III avrebbe poi trovato cittadinanza nel Codex Iustinianus.
Su alcune distinzioni riguardo all'età dell'impubere nelle fonti giuridiche romane
LAMBERTI, Francesca
2011-01-01
Abstract
Il contributo è volto a smentire l’affermazione, corrente in dottrina, per cui, con riguardo alla condizione degli impuberi, la giurisprudenza classica avrebbe distinto fra infantes, minori che non avessero ancora compiuto il settimo anno d’età, del tutto incapaci di compiere atti giuridici, e infantia maiores, minori fra i sette anni e l’età pubere, considerati parzialmente capaci. La relazione ha illustrato come invece, di regola, nelle fonti giuridiche di epoca classica, l’approccio alla minore età appaia orientarsi ad una verifica, caso per caso, della maturità individuale dell’impubere, supportata da determinati criteri-guida, con opinioni diversificate a seconda della fattispecie oggetto di discussione. Nel caso dei negozi a forma orale, il discrimine risulta ad esempio fissato dai giuristi alla luce della capacità o meno del minore di fari, di pronunciare correttamente i verba dell’atto (D. 46.6.6 Gai. 27 ad ed. prov.; Gai 3.106-109; Inst. 3.19.8-10; D. 44.7.1.12-13 Gai. 2 aur.; D. 45.1.141.2 Gai. 2 de verb. obl.; D.50.17.5 Paul. 2 ad Sab.; D. 50.16.209 Florent. 10 inst.); quanto all’effettiva comprensione della portata dello stesso, nel caso dei negozi verbis, si tratterebbe di circostanza su cui i giuristi (e dunque i privati) avrebbero iniziato ad interrogarsi solo successivamente (nel momento in cui si sarebbe cominciato a dare risalto anche alla voluntas sottostante agli atti giuridici). Analogo l’approccio giurisprudenziale per quanto relativo, ad esempio, alla hereditatis aditio (D. 29.2.9 Paul. 2 ad Sab.; D. 29.2.8.1 Ulp. 7 ad Sab.). Per quel che attiene, poi, a profili quali l’acquisto del possesso, parrebbe che alcuni giuristi ammettessero, in questo ambito, addirittura la capacità dell’infans (attesa l’interposizione dell’auctoritas tutoris), là dove altri iurisperiti avrebbero richiesto piuttosto la capacità, nel minore, di intendere l’atto. Che non si vertesse, nel caso in esame, sulla possibilità di fari da parte del minore discende dal fatto che i negozi fondati su una datio rei non richiedevano la capacità di esprimersi verbalmente; piuttosto (almeno a partire da una certa epoca in poi) l’indagine si dové fondare sulla reale sussistenza, nel fanciullo, dell’animus possidendi (C. 7.32.3 Decius, a. 250; D. 41.3.28 Pomp. 17 ad Sab.; D. 41.2.1.5 Paul. 54 ad ed.; D. 41.2.32.2 Paul. 15 ad Sab.; D. 41.2.32.2 Paul. 15 ad Sab.). Una ‘fissazione di criteri’ riguardo alla capacità intellettuale del minore potrebbe essere ascritta, al più, al tardo antico, quando diviene più difficile un accertamento caso per caso della maturità dell’impubere, e la crescente esigenza di formalizzazione si traduce nell’introduzione, in svariati ambiti dello scibile giuridico, di regole più rigide. I riferimenti che rinveniamo nella compilazione alla necessità del compimento del settimo anno di età sono infatti tardi, ed ascrivibili a prospettive particolari dei giuristi che ne fanno menzione (in soli due casi: Ulpiano in D. 26.7.1.2 e Modestino in D. 23.1.14). Arcadio e Onorio nel 407 (CTh. 8.18.8), e successivamente Valentiniano III nel 426 (CI 6.30.18), avrebbero fissato – in riferimento alla hereditatis aditio e alla adgnitio bonorum possessionis – la ‘fine dell’infanzia’ al compimento del settimo anno: la disposizione di Valentiniano III avrebbe poi trovato cittadinanza nel Codex Iustinianus.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.