Mentre le cronache danno ampio risalto al riordino delle professioni ordinistiche, un’altra riforma sta prendendo corpo quasi al riparo dai riflettori: quella delle professioni non regolamentate (Pnr). Approvato dalla Camera il 17 aprile 2012, il ddl AS3270 (“Disposizioni sulle professioni non organizzate in ordini o collegi”) è il punto di arrivo più compiuto in fatto di disciplina delle Pnr mai raggiunto sino ad ora: nella sola XVI legislatura sono state presentate circa venti proposte trasversali ed oltre cento settoriali, specifiche cioè di alcune professioni (consulenti immobiliari, tributaristi, consulenti filosofici, per citarne alcuni). Non può che accogliersi con favore un intervento normativo che circa due milioni di nuovi professionisti (dati Colap 2010) attendono da molti lustri. I principi sottesi alla normativa in fieri ricalcano lo stato dell’arte e sono del tutto condivisibili. Riconoscimento delle associazioni di diritto privato in luogo degli ordini; libero esercizio delle Pnr sia in forma individuale di lavoro autonomo o subordinato, sia associata (societaria o cooperativa); assenza di riserve (si consente anche al professionista non iscritto di esercitare); assenza di barriere all’entrata; rinvio all’autoregolazione delle associazioni (controllo sul possesso dei requisiti, l’esercizio abituale della professione, la formazione continua del professionista e il rispetto dei codici di condotta); poteri di vigilanza e sanzione degli iscritti in capo alle associazioni; eventuale attestazione e/o certificazione da parte di organismi accreditati presso Accredia della qualità della prestazione del singolo associato; obblighi informativi a favore degli utenti, accompagnati da sanzione come pratiche commerciali scorrette. Si scorge il tessuto del dibattito oggi imperniato sulla liberalizzazione delle professioni. Come dire che le Pnr nascono già liberalizzate, con una disciplina bottom-up scevra da orpelli protezionistici, moderna, agile e attenta alle istanze e ai bisogni dei consumatori, la quale fa di concorrenza, certificazione di qualità e information disclosure il proprio fulcro. Sebbene queste innovazioni presentino importanti ricadute positive, specie in termini di occupazione giovanile e femminile, nonché di emersione fiscale di prestazioni spesso fornite “a nero”, non sono prive di criticità. Anzitutto, balza agli occhi la distanza quasi abissale che separa le vecchie dalle nuove professioni: quello cui il legislatore sta dando vita è un modello duale, ove a fronte di ordini e collegi vigilati dal ministero, in cui la professione è per lo più tipizzata e riservata agli iscritti, si trovano associazioni di diritto privato, che autocertificano le competenze e l’aggiornamento dei propri iscritti e ove la vigilanza è solo nominalmente rimessa al MiSE. In secondo luogo, il modello tracciato dal legislatore per le Pnr, esortando le associazioni ad adottare strutture interne e sistemi di regolazione (mandated self regulation), rischia di indugiare in un eccesso di autoregolazione. In fondo la self-regulation non è esente da critiche: autoreferenzialità, mancanza di accountability, comportamenti anticoncorrenziali, ecc. Delegare la tutela degli utenti delle prestazioni professionali alle associazioni, abdicando in toto ad un controllo pubblico effettivo – ministeriale o meno – potrebbe non essere la strada giusta da percorrere. Attingendo al sempre fecondo universo delle teorie della regolazione, sembrano ipotizzabili almeno due vie. La prima consiste nell’abbandonare il modello della mandated self regulation in favore di una meta-regulation. Questa, in genere impiegata come correttivo della self-regulation, consiste nella regolazione pubblica e successiva verifica dei processi di auto-organizzazione (statuti delle associazioni, pubblicazione delle informazioni sulle professioni e gli iscritti, ecc.) e auto-regolazione (norme sulla formazione, ecc.) delle associazioni private. Al regolatore spetterebbe poi l’onere di fissare gli obiettivi lasciando le associazioni libere di scegliere come raggiungerli. Questi correttivi consentirebbero di rafforzare la tutela del consumatore (per ora rimessa al solito obbligo informativo) e di assoggettare a controllo (con relative sanzioni) i processi impiegati dalle associazioni affinchè questi siano strutturati in modo tale da garantirne effettivamente l’accountability. In alternativa, si potrebbe immaginare la messa in opera di un più tradizionale sistema di oversight-regulation, mediante l’istituzione di un organismo indipendente con funzioni di watchdog per il controllo tanto dell’organizzazione quanto delle attività auto-regolatorie delle associazioni. A prescindere dalla soluzione scelta, appare prioritario non sprecare l’occasione delle riforme in atto per poter superare la dicotomia tra i due sistemi normativi.

Le "nuove professioni": un modello per la riforma di quelle ordinistiche?

DI PORTO, Fabiana
2012-01-01

Abstract

Mentre le cronache danno ampio risalto al riordino delle professioni ordinistiche, un’altra riforma sta prendendo corpo quasi al riparo dai riflettori: quella delle professioni non regolamentate (Pnr). Approvato dalla Camera il 17 aprile 2012, il ddl AS3270 (“Disposizioni sulle professioni non organizzate in ordini o collegi”) è il punto di arrivo più compiuto in fatto di disciplina delle Pnr mai raggiunto sino ad ora: nella sola XVI legislatura sono state presentate circa venti proposte trasversali ed oltre cento settoriali, specifiche cioè di alcune professioni (consulenti immobiliari, tributaristi, consulenti filosofici, per citarne alcuni). Non può che accogliersi con favore un intervento normativo che circa due milioni di nuovi professionisti (dati Colap 2010) attendono da molti lustri. I principi sottesi alla normativa in fieri ricalcano lo stato dell’arte e sono del tutto condivisibili. Riconoscimento delle associazioni di diritto privato in luogo degli ordini; libero esercizio delle Pnr sia in forma individuale di lavoro autonomo o subordinato, sia associata (societaria o cooperativa); assenza di riserve (si consente anche al professionista non iscritto di esercitare); assenza di barriere all’entrata; rinvio all’autoregolazione delle associazioni (controllo sul possesso dei requisiti, l’esercizio abituale della professione, la formazione continua del professionista e il rispetto dei codici di condotta); poteri di vigilanza e sanzione degli iscritti in capo alle associazioni; eventuale attestazione e/o certificazione da parte di organismi accreditati presso Accredia della qualità della prestazione del singolo associato; obblighi informativi a favore degli utenti, accompagnati da sanzione come pratiche commerciali scorrette. Si scorge il tessuto del dibattito oggi imperniato sulla liberalizzazione delle professioni. Come dire che le Pnr nascono già liberalizzate, con una disciplina bottom-up scevra da orpelli protezionistici, moderna, agile e attenta alle istanze e ai bisogni dei consumatori, la quale fa di concorrenza, certificazione di qualità e information disclosure il proprio fulcro. Sebbene queste innovazioni presentino importanti ricadute positive, specie in termini di occupazione giovanile e femminile, nonché di emersione fiscale di prestazioni spesso fornite “a nero”, non sono prive di criticità. Anzitutto, balza agli occhi la distanza quasi abissale che separa le vecchie dalle nuove professioni: quello cui il legislatore sta dando vita è un modello duale, ove a fronte di ordini e collegi vigilati dal ministero, in cui la professione è per lo più tipizzata e riservata agli iscritti, si trovano associazioni di diritto privato, che autocertificano le competenze e l’aggiornamento dei propri iscritti e ove la vigilanza è solo nominalmente rimessa al MiSE. In secondo luogo, il modello tracciato dal legislatore per le Pnr, esortando le associazioni ad adottare strutture interne e sistemi di regolazione (mandated self regulation), rischia di indugiare in un eccesso di autoregolazione. In fondo la self-regulation non è esente da critiche: autoreferenzialità, mancanza di accountability, comportamenti anticoncorrenziali, ecc. Delegare la tutela degli utenti delle prestazioni professionali alle associazioni, abdicando in toto ad un controllo pubblico effettivo – ministeriale o meno – potrebbe non essere la strada giusta da percorrere. Attingendo al sempre fecondo universo delle teorie della regolazione, sembrano ipotizzabili almeno due vie. La prima consiste nell’abbandonare il modello della mandated self regulation in favore di una meta-regulation. Questa, in genere impiegata come correttivo della self-regulation, consiste nella regolazione pubblica e successiva verifica dei processi di auto-organizzazione (statuti delle associazioni, pubblicazione delle informazioni sulle professioni e gli iscritti, ecc.) e auto-regolazione (norme sulla formazione, ecc.) delle associazioni private. Al regolatore spetterebbe poi l’onere di fissare gli obiettivi lasciando le associazioni libere di scegliere come raggiungerli. Questi correttivi consentirebbero di rafforzare la tutela del consumatore (per ora rimessa al solito obbligo informativo) e di assoggettare a controllo (con relative sanzioni) i processi impiegati dalle associazioni affinchè questi siano strutturati in modo tale da garantirne effettivamente l’accountability. In alternativa, si potrebbe immaginare la messa in opera di un più tradizionale sistema di oversight-regulation, mediante l’istituzione di un organismo indipendente con funzioni di watchdog per il controllo tanto dell’organizzazione quanto delle attività auto-regolatorie delle associazioni. A prescindere dalla soluzione scelta, appare prioritario non sprecare l’occasione delle riforme in atto per poter superare la dicotomia tra i due sistemi normativi.
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