Allorché il processo che portò all’unificazione d’Italia, con capitale Roma, poté dirsi effettivamente concluso e, sotto l’egida della monarchia prussiana, si compiva quello dello Stato tedesco, con la nascita del Deutsches Kaiserreich, in campo archeologico fra la Penisola e gli ambienti colti del mondo tedesco si contava già una lunga vicenda di interessi comuni e di scambi. Culmine di questo percorso, la fondazione nel 1829 a Roma dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica che per anni era stato il contesto privilegiato di un rapporto paritario d’interscambio fra la ricerca archeologica italiana e quella tedesca. La costituzione dei due stati unitari accompagna tuttavia una significativa trasformazione di queste relazioni, nel segno, certo, di un vivo contatto, ma anche di un netto divergere degli approcci e degli interessi. Da un lato, infatti, il consolidarsi del taglio accademico degli studi tedeschi diviene un modello sempre più stringente e, sotto alcuni aspetti, schiacciante per le Università italiane. Dall’altro la specificità della situazione del Bel Paese e del suo immenso patrimonio monumentale e storico-artistico, accanto alle istanze di ricerca e di studio – da riorganizzare –, lasciava emergere le pressanti necessità della tutela e dell’indagine sul campo. In più, il lascito ingombrante delle memorie tangibili del passato costituì una preoccupazione che il giovane Regno d’Italia dovette risolvere in una situazione di emergenza e pressato da gravi difficoltà economiche. Ci si pose allora di fronte all’alternativa di importare tout court un modello vincente, quello accademico tedesco, o trovare una soluzione che tenesse conto delle peculiarità italiane. Il problema, nella sua complessità, fu ben presente a colui che a giusto titolo è considerato il padre dell’archeologia italiana postunitaria, Giuseppe Fiorelli. Le due opzioni si bilanciarono per un certo tempo, dando luogo, infine, a un netto prevalere della prima, con significative conseguenze per le sorti dell’archeologia italiana. Il contributo, dopo aver inquadrato la situazione in termini storici generali, discute gli aspetti significativi del progetto di riforma del Fiorelli, per molti aspetti inesitato, esemplificando in due figure di studiosi interessati in quegli anni alla ricerca archeologica in Italia meridionale e in Sicilia (Antonino Salinas e Francesco Saverio Cavallari), le diverse “anime” dell’archeologia italiana del tempo in rapporto al modello germanico.
Archeologia in Magna Grecia e “mito germanico”. L’istituzione degli studi di archeologia nell’Italia meridionale post-unitaria e il modello accademico tedesco
F. Frisone
Writing – Review & Editing
2018-01-01
Abstract
Allorché il processo che portò all’unificazione d’Italia, con capitale Roma, poté dirsi effettivamente concluso e, sotto l’egida della monarchia prussiana, si compiva quello dello Stato tedesco, con la nascita del Deutsches Kaiserreich, in campo archeologico fra la Penisola e gli ambienti colti del mondo tedesco si contava già una lunga vicenda di interessi comuni e di scambi. Culmine di questo percorso, la fondazione nel 1829 a Roma dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica che per anni era stato il contesto privilegiato di un rapporto paritario d’interscambio fra la ricerca archeologica italiana e quella tedesca. La costituzione dei due stati unitari accompagna tuttavia una significativa trasformazione di queste relazioni, nel segno, certo, di un vivo contatto, ma anche di un netto divergere degli approcci e degli interessi. Da un lato, infatti, il consolidarsi del taglio accademico degli studi tedeschi diviene un modello sempre più stringente e, sotto alcuni aspetti, schiacciante per le Università italiane. Dall’altro la specificità della situazione del Bel Paese e del suo immenso patrimonio monumentale e storico-artistico, accanto alle istanze di ricerca e di studio – da riorganizzare –, lasciava emergere le pressanti necessità della tutela e dell’indagine sul campo. In più, il lascito ingombrante delle memorie tangibili del passato costituì una preoccupazione che il giovane Regno d’Italia dovette risolvere in una situazione di emergenza e pressato da gravi difficoltà economiche. Ci si pose allora di fronte all’alternativa di importare tout court un modello vincente, quello accademico tedesco, o trovare una soluzione che tenesse conto delle peculiarità italiane. Il problema, nella sua complessità, fu ben presente a colui che a giusto titolo è considerato il padre dell’archeologia italiana postunitaria, Giuseppe Fiorelli. Le due opzioni si bilanciarono per un certo tempo, dando luogo, infine, a un netto prevalere della prima, con significative conseguenze per le sorti dell’archeologia italiana. Il contributo, dopo aver inquadrato la situazione in termini storici generali, discute gli aspetti significativi del progetto di riforma del Fiorelli, per molti aspetti inesitato, esemplificando in due figure di studiosi interessati in quegli anni alla ricerca archeologica in Italia meridionale e in Sicilia (Antonino Salinas e Francesco Saverio Cavallari), le diverse “anime” dell’archeologia italiana del tempo in rapporto al modello germanico.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.