L’attuale conformazione del capitalismo s’inquadra come modello economico del libero mercato, inteso come ecosistema in grado di autoregolarsi. Sembrerebbe una condizione ottimale in cui le variabili della domanda, dell’inflazione e della disoccupazione funzionano alla stregua di forze naturali e che, mediante “aggiustamenti” spontanei, sono in grado di assicurare l’equilibrio creando un mondo perfetto di piena occupazione, creatività e “crescita perpetua” (Hayek 1944; Friedman 1962). Questa teorizzazione ideologizza la dottrina economica e conserva i caratteri del fondamentalismo con cui, a livello sociale, sono costruiti i processi di legittimazione politica. Infatti se qualcosa nel mercato (e quindi socialmente) non funziona (ad esempio l’inflazione sale, la crescita diminuisce, ecc.), l’unica spiegazione plausibile è che il mercato non è abbastanza libero. Secondo tale orientamento, la soluzione, e dunque il modo per creare la società perfetta, consiste nell’applicazione più rigida delle norme fondamentali di libertà economica e nell’eliminazione di qualsiasi forma di ingerenza da parte dello Stato nell’economia come prescrizione universalmente valida per lo sviluppo; un nuovo progetto economico, dunque, che richiede: a) la liberalizzazione e la deregolamentazione delle transazioni economiche (nazionali e internazionali), b) la privatizzazione delle imprese statali e dei servizi forniti dallo stato e, addirittura, c) il trattamento della spesa pubblica per il benessere come costo della produzione internazionale, piuttosto che come fonte di domanda interna (Jessop 2002, 458-459). Si tratta di un modello nettamente in contrasto con tutte le forme di intervento pubblico e, quindi, con la “Teoria economica keynesiana” che prevede (in particolare nei periodi di crisi) interventi da parte dello Stato per incrementare la domanda globale anche in condizioni di deficit pubblico (Keynes 1920, 1936) e che considera lo spazio sociale in termini di mercato anche riguardo alle questioni legate al welfare (salute, istruzione, lavoro, ecc.), dove i problemi di bilanciamento tra bisogni sociali e allocazione di risorse scarse divengono evidenti. Un livello, quest’ultimo, in cui si manifestano aspettative sociali che determinano un trasferimento di responsabilità decisionale (e quindi del rischio) dall’economia alla politica, sebbene l’economia continui a dipendere dal fatto che siano assicurate le condizioni di pace, che il diritto venga tutelato e che le decisioni vincolanti vengano prodotte dalla politica (Luhmann 1983). Questa prassi supera il concetto di “mano invisibile” del liberalismo smithiano perché rappresenta, per certi versi, l’esito di sovrapposizioni tra sistema economico e sistema politico, ciò equivale ad una “intrasparenza” funzionale tra i sistemi che confonde il linguaggio e i codici della politica con quelli dell’economia generando nuove forme di esclusione sociale che, come risposta e sempre più spesso, si trasformano in populismi (Preite 2017). Il rancore cui il populismo dà voce non è altro che il prodotto di una incapacità di rappresentare e di dare risposte al disagio sociale che, lasciato a se stesso dalle forze politiche “razionali”, trova ascolto soltanto nei profeti del risentimento. Un fenomeno che crea distanza tra potere e società, una consapevole e indignata esclusione dal centro degli interessi economici. In tale prospettiva, i moderni populismi funzionano, dunque, come reti “fiduciarie” di inclusione sociale. Questo contributo si pone l’obiettivo di descrivere in che misura i nuovi populismi siano in grado di compensare la pressione delle aspettative rispetto a valori di inclusione sociale, con un approccio che parte dal superamento del tradizionale schema assiale centro/periferia per giungere all’analisi delle “reti fiduciarie” che entrano in campo.
Capitalismo, populismi e nuove trasformazioni delle reti fiduciarie
G. Preite
2019-01-01
Abstract
L’attuale conformazione del capitalismo s’inquadra come modello economico del libero mercato, inteso come ecosistema in grado di autoregolarsi. Sembrerebbe una condizione ottimale in cui le variabili della domanda, dell’inflazione e della disoccupazione funzionano alla stregua di forze naturali e che, mediante “aggiustamenti” spontanei, sono in grado di assicurare l’equilibrio creando un mondo perfetto di piena occupazione, creatività e “crescita perpetua” (Hayek 1944; Friedman 1962). Questa teorizzazione ideologizza la dottrina economica e conserva i caratteri del fondamentalismo con cui, a livello sociale, sono costruiti i processi di legittimazione politica. Infatti se qualcosa nel mercato (e quindi socialmente) non funziona (ad esempio l’inflazione sale, la crescita diminuisce, ecc.), l’unica spiegazione plausibile è che il mercato non è abbastanza libero. Secondo tale orientamento, la soluzione, e dunque il modo per creare la società perfetta, consiste nell’applicazione più rigida delle norme fondamentali di libertà economica e nell’eliminazione di qualsiasi forma di ingerenza da parte dello Stato nell’economia come prescrizione universalmente valida per lo sviluppo; un nuovo progetto economico, dunque, che richiede: a) la liberalizzazione e la deregolamentazione delle transazioni economiche (nazionali e internazionali), b) la privatizzazione delle imprese statali e dei servizi forniti dallo stato e, addirittura, c) il trattamento della spesa pubblica per il benessere come costo della produzione internazionale, piuttosto che come fonte di domanda interna (Jessop 2002, 458-459). Si tratta di un modello nettamente in contrasto con tutte le forme di intervento pubblico e, quindi, con la “Teoria economica keynesiana” che prevede (in particolare nei periodi di crisi) interventi da parte dello Stato per incrementare la domanda globale anche in condizioni di deficit pubblico (Keynes 1920, 1936) e che considera lo spazio sociale in termini di mercato anche riguardo alle questioni legate al welfare (salute, istruzione, lavoro, ecc.), dove i problemi di bilanciamento tra bisogni sociali e allocazione di risorse scarse divengono evidenti. Un livello, quest’ultimo, in cui si manifestano aspettative sociali che determinano un trasferimento di responsabilità decisionale (e quindi del rischio) dall’economia alla politica, sebbene l’economia continui a dipendere dal fatto che siano assicurate le condizioni di pace, che il diritto venga tutelato e che le decisioni vincolanti vengano prodotte dalla politica (Luhmann 1983). Questa prassi supera il concetto di “mano invisibile” del liberalismo smithiano perché rappresenta, per certi versi, l’esito di sovrapposizioni tra sistema economico e sistema politico, ciò equivale ad una “intrasparenza” funzionale tra i sistemi che confonde il linguaggio e i codici della politica con quelli dell’economia generando nuove forme di esclusione sociale che, come risposta e sempre più spesso, si trasformano in populismi (Preite 2017). Il rancore cui il populismo dà voce non è altro che il prodotto di una incapacità di rappresentare e di dare risposte al disagio sociale che, lasciato a se stesso dalle forze politiche “razionali”, trova ascolto soltanto nei profeti del risentimento. Un fenomeno che crea distanza tra potere e società, una consapevole e indignata esclusione dal centro degli interessi economici. In tale prospettiva, i moderni populismi funzionano, dunque, come reti “fiduciarie” di inclusione sociale. Questo contributo si pone l’obiettivo di descrivere in che misura i nuovi populismi siano in grado di compensare la pressione delle aspettative rispetto a valori di inclusione sociale, con un approccio che parte dal superamento del tradizionale schema assiale centro/periferia per giungere all’analisi delle “reti fiduciarie” che entrano in campo.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.