Nel corso della storia, la filosofia ha sempre agito come sapere critico, inteso come studio dei limiti e delle possibilità della conoscenza in relazione al suo sviluppo, conservando e riflettendo, oltre al significato etimologico di amore per il sapere e al naturale stupore che ne consegue, la curiosità di fronte alla realtà. La storia contemporanea del pensiero, poi, almeno a partire dalla fine del Settecento, ha sottratto territori sempre più ampi al dominio dell’antica regina del sapere, la metafisica, espropriandola via via di piccoli feudi, divenuti nel tempo sempre più vasti e autonomi. Sicché, se un tempo Jean-Baptiste Lamarck doveva intitolare la sua opera principale Philosophie zoologique (1809) al fine di specificare, con l’aggettivo, un ramo della scienza filosofica per conferire alla zoologia una prima legittimazione scientifica, viceversa, nel primo decennio del secolo XXI, uno scienziato come Stephen Hawking dichiara solennemente la fine della filosofia. In seguito, vi è stato chi si è spinto sino a proclamare chiliasticamente la fine di ogni teoria, come Chris Anderson1, oppure chi, confidando nell’inedito potere di calcolo di rich e big data, ha auspicato al ritorno, più o meno ingenuo, a una fisica sociale di comtiana memoria, come lo scienziato informatico del MIT Alex Pentland. Ma gli ultimi venti anni hanno visto un incrementarsi delle conoscenze e un evolversi dei rami del sapere, così che l’immagine dell’arbor scientiarum è sostituita piuttosto dalla pluralità aperta di una serie di chiome rigogliose, singole e molte- plici a seconda dei modi di riferirsi a oggetti in continua trasformazione. Nello svilupparsi in maniera sempre più specifica, i singoli rami si infittiscono e si intrec- ciano sempre più l’uno con l’altro; la fitta foresta delle scienze si apre all’oceano del sapere che avanza in maniera interdisciplinare e, oggi più che mai, è urgente uno sguardo d’insieme dello sviluppo delle discipline scientifiche, più per osservarne i confini, la loro labilità, permeabilità e comprendere l’indirizzo complessivo, che non per assoggettarle a un solo fondamento. Nello specifico, il processo di informatizzazione del sapere e di digitalizzazione delle pratiche ha contribuito a rimettere in discussione lo statuto dell’uomo e della sua relazione con il mondo, in una delle periodiche revisioni critiche di cui è fatta la storia del pensiero filosofico e che ha attinto, in questo caso, a diversi saperi specialistici, messi trasversalmente in comunicazione al di là delle consuete distinzioni settoriali e istituzionali. Non è un caso che la scienza informatica propriamente detta nasca con gli studi di Alan Turing sull’intelligenza e sull’Entscheidungsproblem alla fine degli anni Trenta del Novecento2, proseguendo, alla fine degli anni Quaranta, con le ricerche John von Neumann, il quale traduce la sostanziale equivalenza di cervello umano e cal- colatore elettronico nell’architettura hardware del moderno computer; ad esso si aggiunge infine il fondamentale studio di Claude Shannon sulla teoria matematica della comunicazione3, che non solo segna il ponte necessario tra logica e sistemi elettronici, ma pone le fondamenta della teoria del codice e della codifica di sor- gente, sviluppando principi fondamentali come l’entropia e la ridondanza infor- mativa. Questi tre scienziati – Turing, von Neumann e Shannon – offrono risposte a problemi eminentemente filosofici (intelligenza, modelli di pensiero, rapporto fra informazione e comunicazione) fornendo tuttavia risposte nei termini della nuo- va scienza dell’informazione e dell’ingegneria informatica. Non di meno, come riflessione ermeneutica ed epistemologica sul progresso scientifico, la filosofia ha continuato a confrontarsi con le scienze da varie prospettive. Per fare degli esempi prossimi ai temi trattati, si pensi alle convergenze tra le ricerche sull’ipertesto con- dotte da Vandevar Bush, con il suo Memex, o la Literary Machines di Ted Nelson parallele a romanzi come Rayuela di Cortàzar, agli studi sulle innumerevoli rela- zioni e sui multiversi narrativi di Joyce condotti da Umberto Eco, alle indagini sul rizoma di Jacques Deleuze o sui lexía di Roland Barthes e, non ultimo, ai lemmi inclassables di Raymond Queneau per l’Enciclopédie de la Plèiade. Per non parlare, infine, dei rimandi aperti e in cerca di lettore della Enciclopedia Einaudi Sul rapporto fra filosofia e informatica ha però pesato l’ozioso dibattito fra le ‘due culture’, rinnovatosi alla fine degli anni Cinquanta con il celebre scritto di Charles Percy Snow5. La vecchia distinzione diltheyana fra Geisteswissenschaften e Naturwissenschaften, ricapitolata poi da neoidealismo ed esistenzialismo, e da una divisione tra informatica utile (per il progresso delle scienze) e inutile (per le obso- lete tecniche ermeneutiche proprie delle Humanities) ha inciso negativamente sul dibattito scientifico e filosofico, legittimando da un lato i dogmi di talune prospet- tive scientifiche e, dall’altro lato, offrendo un ottimo alibi a quei filosofi persuasi del destino della tecnica intesa come ‘oblio dell’essere’, obnubilati da vaticini apo- calittici e da una profonda incomprensione dello scopo e del potere conoscitivo della scienza, così come della portata epistemologica e della funzione orientativa della tecnologia. Oggi l’auspicata emergenza di un cambio di prospettiva, di una riflessione prag- matico-critica sulla digitalizzazione del sapere e sulle pratiche di rappresentazione delle conoscenze hanno aperto nuove strade alla ricerca filosofica: abbandonato a se stesso lo scranno metafisico (perché ideologico e viceversa), la filosofia si è riscoperta nel trivio, è tornata nell’agorà per fare i conti con le procedure della rivoluzione informatica e documentale in atto, potendo disporre di un vasto e articolato bagaglio concettuale e metodologico con il fine, se non di comprendere, quantomeno di descrivere la nuova realtà plurale. A riprova del cambiamento di paradigma nel quale ci si trova, per farlo la filosofia non solo ha dovuto abbandonare ogni pretesa egemonica ma, anzi, ha fatto del carattere privativo di ogni pretesa fondazionale (sia essa filologica, informatica, linguistica o computazionale) la marca distintiva del nuovo umanesimo digitale. In questo contesto, la digitalizzazione delle pratiche di registrazione informatica, l’ordine di archiviazione dei dati e la diffusione disintermediata della conoscenza hanno chiamato in causa il discorso filosofico come riflessione generale ordinata e sovraordinata al particulare delle singole discipline. E lo hanno fatto non tanto come novità gerarchicamente ordinate quanto in base a schemi categoriali che, in una nuova varietà di modi, sono ritagliati a partire dalla realtà di cui essi sono indi- ci: è così che la relazione fra filosofia e digitale si prospetta proficua. La direzione da seguire è un crinale sottile, da cui è talvolta facile allontanarsi, cadendo nelle opposte tentazioni ideologiche tra apocalittici o integrati. In questo senso, la necessità di adottare un punto di vista costitutivamente con- diviso, che tenga cioè conto di tradizioni differenti, ha prodotto un volume mono- grafico in cui emergono non solo temi di discussione diversi, ma anche metodo- logie e punti di vista distinti. Questa pluralità di modi di analizzare la complessità della rivoluzione digitale, al di là delle tradizioni e delle verità, alle volte dissonanti, di cui esse sono portatrici, permette di superare la dicotomia per cui, se da un lato filosofia e digitale si trovano in una mutua correlazione, quasi un rapporto inscindibile di forma del pensiero e realtà (aprendo così la strada all’inserimento della filosofia nel dominio delle discipline umanistiche digitali), dall’altro lato il digitale fornirebbe solamente nuovi oggetti da studiare con i metodi tradizionali della filosofia. Sin dal saggio di apertura a questo volume, Biodiversità ed ecosistema digitale. Per una filosofia plurilingue e multiprospettica, Cristina Marras si incarica di andare oltre le dicotomie rigide e polarizzanti che spesso caratterizzano il dibattito sulla filosofia e il digitale per aprirsi invece al confronto critico-dialettico e pragmatico. Marras si concentra, infatti, sul ruolo svolto dalla filosofia (e sulle relative possibi- lità di sviluppo) di fronte agli interrogativi sorti con l’imporsi delle nuove tecnolo- gie, e lo fa mettendo a fuoco il rapporto tra filosofia e digitale su un duplice piano. Da una parte un’attenta disamina dello stato dei lavori per quanto attiene progetti e prospettive di filosofia digitale. Il loro contributo è cruciale per le pratiche di Digital Humanities e per una presa di coscienza critica dei linguaggi e degli schemi categoriali che li sostengono. Dall’altra parte, invece, l’analisi si muove bene al di là di ogni contrapposizione e mostra il ruolo della filosofia nel nuovo ecosistema digitale e nell’intricato panorama della quarta rivoluzione. Ciò avviene grazie al carattere multilinguistico e poliprospettico di una filosofia che crede nella capacità dei propri concetti di essere segnali che tracciano e mostrano possibili percor- si, porti e approdi a chi navighi nell’ecosistema. In tal modo si possono trovare proposte o risposte filosofiche, spesso all’interno stesso delle differenti discipline, in grado di superare le semplificazioni dicotomiche ancora una volta eredi delle due culture e dicotomie quali materiale/digitale, scienza/tecnologia, reale/virtuale, teoria/pratica. Un esempio di come la filosofia sia non solo un ricco serbatoio di idee, ma al contempo un medium culturale performante giunge dalla poetica di Aristotele, un testo chiave di tutte le teorie e pratiche narrative per oltre duemila anni, dalla tragedia attica alla sceneggiatura. La trasformazione digitale che ha investito anche il mondo del cinema e della televisione – ora si direbbe più in generale dei contenuti multimediali –, infatti, non può ancora oggi rinunciare a confrontarsi con le strut- ture narratologiche proposte da Aristotele. Del tema, a cavallo fra cultural e media studies, discute Luca Bandirali, nel cui saggio Nuovi abiti per la vecchia cerimonia: Aristotele e la narrativa digitale, risponde a una domanda semplice quanto fonda- mentale: che cosa è successo alla teoria poetica di Aristotele nell’era della fiction digitale, ovvero al tempo in cui i new media offrono prodotti narrativi che spazia- no dalle serie TV ai videogiochi? Le storie sono sempre le stesse oppure i nuovi media (e i nuovi utenti) le hanno cambiate per sempre? Bandirali prova a rispon- dere articolando il suo saggio su più livelli e attraverso numerosi casi di studio, muovendo da un’ipotesi ermeneutica persuasiva: innanzitutto, nella narrazione digitale le storie sono indipendenti dai media che le veicolano: esse si svincolano cioè dal canale in cui sono veicolate a favore di un processo crossmediale. Inoltre, seguono schemi, proprio come insegna Aristotele. I prodotti narrativi digitali, pertanto, ricorrono ad automatismi, nel senso che seguono degli script e delle for- mule ricorrenti; si basano su di un sistema causale, perché le storie sono catene di eventi collegati da rapporti di causa-effetto; utilizzano un processo meccanicistico, in quanto sono storie che non hanno fine. Si tratta, in tutti i casi, di dispositivi narrativi che, inevitabilmente, devono guardare al futuro, confrontandosi con le possibilità a cui abilitano i nuovi strumenti digitali, ma dall’altro devono fare i conti con le teorie che si svolgono secondo schemi genetici che Aristotele ha indi- cato con chiarezza e lungimiranza. Il contributo di Luigi Catalani, La tecnologia wiki come spazio per il dialogo operativo tra filosofia e informatica, è dedicato alle pratiche filosofiche legate al Wiki. Anche Catalani parte dall’esperienza e mostra come l’osservazione che l’aspetto tecnologico di quest’ultimo rischia di mettere in ombra costituisca non solo un potente strumento per produrre e gestire processi condivisi di forma- zione e archiviazione del sapere, ma anche e soprattutto un’occasione cruciale per il dialogo tra filosofia e digitale e per un’acquisita consapevolezza del po- tenziale epistemologico dei paradigmi digitali. A partire dal caso di studio della sperimentazione decennale condotta dall’Università di Salerno, nel quadro del corso di Computer Science applicata alle scienze filosofiche, Catalani fornisce un quadro delle cruciali questioni etiche e filosofiche che emergono dall’interazione tra i mondi della filosofia e del digitale: il rapporto tra memoria e responsabilità, il problema della verità e della postverità, l’organizzazione e classificazione dei saperi, i caratteri dei nuovi saperi digitali. Proprio sulle difficoltà della rappresentazione e organizzazione digitale del sa- pere filosofico e umanistico, per sua natura complesso e indeterminato, si con- centra il contributo di Alois Pichler, James M. Fielding, Nivedita Gangopadhyay, e Andreas L. Opdahl: Crisscross ontology: Mapping concept dynamics, competing argument and multiperspectival knowledge in philosophy. Gli autori del gruppo di ricerca internazionale sottolineano la necessità per la filosofia di una maggiore integrazione con metodi e strumenti computazionali al fine di poter modellizzare e rappresentare contenuti e concetti. Le ontologie computazionali, senza pretesa di esaustività o rigide formalizzazioni, consentirebbero di assumere una prospet- tiva cross-disciplinare e una visione della conoscenza multiprospettica che anco- ra mancherebbe alla disciplina filosofica per assumersi anche le sfide del digitale. L’ambiziosa visione del Web of meaning potrà diventare realtà quando la filosofia sarà capace di venir supportata da pratiche digitali e potrà essa stessa aspirare a svilupparle e crearle. Questo obiettivo, che è l’orizzonte teorico e pratico verso il quale la filosofia attualmente dovrebbe muovere secondo gli autori, è raggiungibile concretamente nella misura in cui non solo la filosofia assume le potenzialità delle scienze computazionali ma anche che le categorie proprie della filosofia, a volte contraddittorie, come per esempio contestualità, indeterminatezza, dinamica, ven- gano prese sul serio dalle scienze computazionali. Enrico Terrone con Digit-filosofia o filosofia del digitale? prende invece posizione contro l’idea che il digitale possa cambiare sostanzialmente il metodo della filosofia, aprendo così la strada all’inclusione della filosofia nel dominio delle di- scipline umanistiche digitali, sostenendo invece che il digitale fornisce solo nuovi oggetti da studiare con i metodi filosofici tradizionali. Il saggio muove dall’assunto che al cuore del progetto delle DH vi sia l’idea di avvalersi della tecnologia informatica in senso strumentale, per meglio gestire le moli di dati che costituiscono gli “input” delle discipline umanistiche. Tuttavia, la filosofia non muta di metodo e contenuti, nemmeno nei termini di una nuova forma di filosofia sperimentale, ovvero incline a un approccio empirico. Anche gli ambiti filosofici che sembrano intersecarsi con le scienze dell’informazione e con tecnologie digitali non assumo- no lo status di paradigma filosofico ma si risolvono, tutt’al più, in casi controversi e liminali. Insomma, la filosofia, per Terrone, ha un suo metodo e una sua specificità irriducibili, e si aggiorna rinnovando la sua funzione principale, ovvero riflettendo anche sul mondo digitale e sulle conseguenze della digitalizzazione. A fare quasi da contrappunto alla tesi di Terrone è quella di Fabio Ciracì discussa nel suo saggio Per una teoria critica del digitale: fake-news e postverità alla luce della logica della verosimiglianza. Le digital humanities rappresentano un’area complessa di studi, all’interno della quale le discipline umanistiche si intersecano con le scienze informatiche sia nella loro sfera applicativa, sia nella loro sfera teoretica. In particolare, la filosofia è condizionata dalla storia materiale e quindi anche dalla rivoluzione digitale, e gli strumenti digitali devono essere considerati a tutti gli effetti degli apriori storico-tecnologici dal potere non solo performante ma soprattutto trasformativo, di cui il pensiero umano e in massimo grado la filo- sofia devono tener conto. La tesi è dimostrata a partire dall’analisi dei fenomeni di fake-news e post-verità. Nel saggio vengono innanzitutto stabilite quali sono le condizioni di contesto che caratterizzano l’infosfera (information overload e man- canza di autorevolezza), per passare alla descrizione dell’attuale struttura dei social media, come luogo di specifiche strategie di comunicazione (filter-bubble ed echo- chamber). Successivamente, viene analizzata la struttura logica della plausibilità, indicata come caratteristica della diffusione di fake-news. Infine, Ciracì propone una teoria critica del digitale che prova ad integrare le teorie dei media mutativi, dell’infosfera e della documedialità secondo un approccio interdisciplinare. La scrittura stratificata di un software o la complessa realizzazione di una mac- china elettronica sono invece l’oggetto di studio del saggio Macchine? di Mario Bochicchio e di Simona Corciulo che, a partire dall’analisi del passaggio dal modello imitativo mente-computer al suo modello funzionale, ne indagano le ricadute sul principio di attribuzione dell’autorialità. Se infatti individuare l’autore di un testo classico è un’operazione piuttosto semplice e immediata – la Divina commedia è il capolavoro di Dante – più complesso e arduo invece è riconoscere la paternità di un software o di una macchina automatica, perché realizzati su più livelli, da più autori, in un sistema di condizionamento reciproco che mette in crisi il paradigma classico dell’autorialità. Il saggio si chiude con una riflessione sulla percezione, da parte del fruitore, di una ‘presenza aliena’ nella macchina, derivata dall’evapora- zione, nel processo di realizzazione, di una autorialità riconoscibile, a vantaggio dell’emulazione di una autonomia ontologica che la macchina non possiede. Nella sua analisi delle trasformazioni a cui l’autorialità sta andando incontro nel contesto magmatico del web, Roberto Limonta mostra come tali cambiamenti impli- chino il sorgere e l’affermarsi di un nuovo genere di pratiche di lettura, che comportano la necessità di ridefinire cosa di volta in volta intendiamo per ‘testo’, ‘editoria’, ‘proprietà intellettuale’, ‘autore’ e ‘autorialità’ dopo la rivoluzione digitale e l’ingres- so nell’infosfera. Il saggio I diritti dell’algoritmo: per una ontologia dell’autorialità digitale analizza l’autorialità digitale alla luce dell’ontologia sociale di John Searle e del concetto di confini fiat e bona fide di Barry Smith, per concentrarsi sulla natura relazionale e dinamica dei testi digitali sul Web e sulle pratiche di lettura che vi si le- gano: in questa prospettiva, i diritti di proprietà intellettuale – e la definizione stessa di autorialità – non svolgono più il ruolo di oggetti di negoziazione, come nel dibatti- to storico a partire dal XVIII secolo, ma diventano attributi dell’algoritmo di ricerca e si impongono quindi come condizioni necessarie per il funzionamento dell’intero sistema della comunicazione digitale. La recente direttiva 2019/790 del Parlamento Europeo è il case study sul quale gli strumenti di questa ontologia sociale sono stati testati, in un contesto di ontologia storica e di storia della lettura. La definizione di oggetto digitale è al centro della riflessione di Riccardo Fedriga proposta nel suo contributo Eventi digitali. Riflessione che va al cuore di questioni cruciali quali per esempio il rapporto fondazionale tra finzione e realtà, i confini tra libertà e determinismo digitale, Realtà Aumentata e Realtà Virtuale nelle Realtà Estese, il ruolo performativo degli utenti. Proprio nel contesto della Realtà Aumentata, che ha una eminente dimensione realistica che manca per esempio alla Realtà Virtuale, considerare gli oggetti sociali nella loro dimensione digitale come artefatti significa liberarli dalla dipendenza dal supporto e riportare l’attenzione sulla fruizione che diventa dinamica e multisensoriale. La Realtà Aumentata fornisce infatti una più ampia interattività digitale. Questo assunto è argomentato attraverso una serie di esempi e casi studio: la Realtà Aumentata diventa importan- te ed efficace per esempio nella didattica online, nella crossmedialità per le letture digitali, come strumento multisensoriale per persone con difficoltà visive o uditive. L’estensione della Realtà Aumentata e della Mixed Reality ha poi ampio utilizzo non solo nell’accesso ma anche nella preservazione del patrimonio culturale. La domanda filosofica ed epistemologica che si pone è dunque quella dello statuto degli oggetti digitali e dei loro significati. Il dialogo-intervista e l’articolo di Stefan Gruner Digital Humanities and Trans Humanities – Some Research Problems for the Humanities of the Not-Too-Far Fu- ture rispondono alla coralità e alla dialettica che la diversità di posizioni ed espe- rienze fanno emergere nella riflessione sul rapporto tra filosofia e digitale che ca- ratterizza questo numero speciale. Con Gruner spostiamo direttamente il punto di vista, oltre che sull’emisfero australe, proprio sulle scienze computazionali. Ab- biamo infatti chiesto all’autore che insegna ‘computational science’ a Pretoria, ma che per sua formazione presenta spesso una marcata contestualizzazione filosofica, di discutere con noi il concetto di ‘computazione’ e di ‘digital humanities’ sia in prospettiva storica, sia alla luce delle sfide che la tecnologica pone attualmente alle discipline umanistiche. La domanda che fa da sfondo all’intervista e all’articolo e sulla quale Gruner si concentra, è se e come le scienze umanistiche, a partire da alcuni concetti chiave quali interpretazione, apprendimento, memoria, siano attualmente capaci di far fronte alla sfida delle tecnologie e in che misura, e quali siano gli strumenti e le categorie specifiche che possono mettere in gioco. Il rischio secondo Gruner è quello di assumere rigide posizioni di determinismo digitale e che le Humanities si trovino in una fase critica che le costringe ad arretrare nelle loro specificità e a perdere posizione rispetto all’avanzare proprio della tecnologia. Si tratta ovviamente di orientamenti diversi, che però si configurano come mo- menti dialettici della discussione, senza la pretesa di pervenire a una sintesi. Va detto anche che la maggior parte dei saggi invitati a contribuire alla discussione si muovono, pur nella differenza dei paradigmi concettuali e delle prospettive che assumono, nel contesto di una concezione della filosofia come sapere pratico ed esperienza teoretica sperimentale, quella métis o intelligenza pratica tanto cara alla sapienza greca da farne addirittura una dea. L’etica delle macchine e le sfide della Realtà Aumentata, lo statuto dell’informatica umanistica o l’ontologia dell’autorialità sul web, postverità e mappatura ontologica del digitale, tutti questi temi si incontrano non tanto nei contenuti, o nei limiti di una disciplina (la filosofia digitale o del digitale), quanto nei modi con cui sono indagati, a partire da ciò che è storicamente dato, dal realismo dei fenomeni in atto e dei case studies analizzati. L’idea infatti non è quella di condurre a una scelta tra le varie posizioni. Quantomeno non solo. Non abbastanza. Le architetture digitali, così come le piattaforme giganti più o meno ancorate al largo del web nell’ecosistema digitale, dovrebbero permettere agli uomini di andare dove vogliono, e non dove devono andare. Ma avere la volontà ancora non significa sapere come e dove andare. In molti casi, infatti, si sa molto bene quello che si vuole ma il problema è arrivarci. Tra ciò che vogliamo prima di scegliere, infatti, e ciò che avremmo voluto – una volta compiuta la scelta – c’è una sostanzia- le differenza (di capacità, di autocontrollo, di alfabetizzazione, di social divide, di status giuridico, di genere, antropologica, biologica...). Una dicotomia che tende ad assottigliarsi quando, e se, si rimuovono gli ostacoli che limitano la libertà impe- dendo di giungere alla meta desiderata, come individui e come società. La libertà di scelta è certamente fondamentale, ma non basta se qualcuno non semplifica e non permette una consapevole navigazione nell’ecosistema digitale. Promuovere la navigazione in modo che sia semplice e utile, che superi gli ostacoli della fram- mentazione e della granularità del sapere in ambiente digitale6, è allora compito della mediazione di quegli architetti della scelta che sono gli Umanisti Digitali7. Ciò vale tanto nell’affrontare i problemi più complessi quanto quelli più comuni, tanto quelli più remoti quanto quelli più prossimi; a partire dall’insegnamento uni- versitario e dalla ricerca filosofica e arrivare, così, a un concreto coinvolgimento delle istituzioni e delle comunità scientifiche a sostegno dello sviluppo sinergico di contenuti e tecnologie8. Quando la comunità scientifica sentirà la responsabilità della cura delle risorse digitali, e non le darà per date e solo come funzionali alla ricerca, ma le intenderà come una opportunità di collaborazione, di creazione e di riflessione di conoscenza condivisa, allora potremmo immaginare di entrare in una dimensione aperta della ricerca. Si tratta di individuare percorsi d’azione e di intervento pratico e, soprattutto, di superare gli ostacoli a ricerche utili ed efficaci, per loro natura interdisciplinari: attivare e tematizzare sempre più frequenti zone di intersezione e osmosi, dar vita a progetti, pubblicazioni, piattaforme interope- rabili. Un lavoro che non può essere affidato ai singoli ma alla cooperazione tra studiosi e in cui la formazione gioca un ruolo centrale. Poi è chiaro che non sta a noi decidere se Achab catturerà o meno la Balena, perché sarebbe empio. Tanto più che la Balena va dove vuole. Ma è certo che, grazie ai labirinti digitali, rendere gli oceani delle biosfere più navigabili per le forme di vita che le abitano potrebbe non essere un’impresa così ardua. F. Ciracì, R. Fedriga, C. Marras Lecce, Milano, Roma, settembre 2020
Introduzione
Fabio Ciracì
2021-01-01
Abstract
Nel corso della storia, la filosofia ha sempre agito come sapere critico, inteso come studio dei limiti e delle possibilità della conoscenza in relazione al suo sviluppo, conservando e riflettendo, oltre al significato etimologico di amore per il sapere e al naturale stupore che ne consegue, la curiosità di fronte alla realtà. La storia contemporanea del pensiero, poi, almeno a partire dalla fine del Settecento, ha sottratto territori sempre più ampi al dominio dell’antica regina del sapere, la metafisica, espropriandola via via di piccoli feudi, divenuti nel tempo sempre più vasti e autonomi. Sicché, se un tempo Jean-Baptiste Lamarck doveva intitolare la sua opera principale Philosophie zoologique (1809) al fine di specificare, con l’aggettivo, un ramo della scienza filosofica per conferire alla zoologia una prima legittimazione scientifica, viceversa, nel primo decennio del secolo XXI, uno scienziato come Stephen Hawking dichiara solennemente la fine della filosofia. In seguito, vi è stato chi si è spinto sino a proclamare chiliasticamente la fine di ogni teoria, come Chris Anderson1, oppure chi, confidando nell’inedito potere di calcolo di rich e big data, ha auspicato al ritorno, più o meno ingenuo, a una fisica sociale di comtiana memoria, come lo scienziato informatico del MIT Alex Pentland. Ma gli ultimi venti anni hanno visto un incrementarsi delle conoscenze e un evolversi dei rami del sapere, così che l’immagine dell’arbor scientiarum è sostituita piuttosto dalla pluralità aperta di una serie di chiome rigogliose, singole e molte- plici a seconda dei modi di riferirsi a oggetti in continua trasformazione. Nello svilupparsi in maniera sempre più specifica, i singoli rami si infittiscono e si intrec- ciano sempre più l’uno con l’altro; la fitta foresta delle scienze si apre all’oceano del sapere che avanza in maniera interdisciplinare e, oggi più che mai, è urgente uno sguardo d’insieme dello sviluppo delle discipline scientifiche, più per osservarne i confini, la loro labilità, permeabilità e comprendere l’indirizzo complessivo, che non per assoggettarle a un solo fondamento. Nello specifico, il processo di informatizzazione del sapere e di digitalizzazione delle pratiche ha contribuito a rimettere in discussione lo statuto dell’uomo e della sua relazione con il mondo, in una delle periodiche revisioni critiche di cui è fatta la storia del pensiero filosofico e che ha attinto, in questo caso, a diversi saperi specialistici, messi trasversalmente in comunicazione al di là delle consuete distinzioni settoriali e istituzionali. Non è un caso che la scienza informatica propriamente detta nasca con gli studi di Alan Turing sull’intelligenza e sull’Entscheidungsproblem alla fine degli anni Trenta del Novecento2, proseguendo, alla fine degli anni Quaranta, con le ricerche John von Neumann, il quale traduce la sostanziale equivalenza di cervello umano e cal- colatore elettronico nell’architettura hardware del moderno computer; ad esso si aggiunge infine il fondamentale studio di Claude Shannon sulla teoria matematica della comunicazione3, che non solo segna il ponte necessario tra logica e sistemi elettronici, ma pone le fondamenta della teoria del codice e della codifica di sor- gente, sviluppando principi fondamentali come l’entropia e la ridondanza infor- mativa. Questi tre scienziati – Turing, von Neumann e Shannon – offrono risposte a problemi eminentemente filosofici (intelligenza, modelli di pensiero, rapporto fra informazione e comunicazione) fornendo tuttavia risposte nei termini della nuo- va scienza dell’informazione e dell’ingegneria informatica. Non di meno, come riflessione ermeneutica ed epistemologica sul progresso scientifico, la filosofia ha continuato a confrontarsi con le scienze da varie prospettive. Per fare degli esempi prossimi ai temi trattati, si pensi alle convergenze tra le ricerche sull’ipertesto con- dotte da Vandevar Bush, con il suo Memex, o la Literary Machines di Ted Nelson parallele a romanzi come Rayuela di Cortàzar, agli studi sulle innumerevoli rela- zioni e sui multiversi narrativi di Joyce condotti da Umberto Eco, alle indagini sul rizoma di Jacques Deleuze o sui lexía di Roland Barthes e, non ultimo, ai lemmi inclassables di Raymond Queneau per l’Enciclopédie de la Plèiade. Per non parlare, infine, dei rimandi aperti e in cerca di lettore della Enciclopedia Einaudi Sul rapporto fra filosofia e informatica ha però pesato l’ozioso dibattito fra le ‘due culture’, rinnovatosi alla fine degli anni Cinquanta con il celebre scritto di Charles Percy Snow5. La vecchia distinzione diltheyana fra Geisteswissenschaften e Naturwissenschaften, ricapitolata poi da neoidealismo ed esistenzialismo, e da una divisione tra informatica utile (per il progresso delle scienze) e inutile (per le obso- lete tecniche ermeneutiche proprie delle Humanities) ha inciso negativamente sul dibattito scientifico e filosofico, legittimando da un lato i dogmi di talune prospet- tive scientifiche e, dall’altro lato, offrendo un ottimo alibi a quei filosofi persuasi del destino della tecnica intesa come ‘oblio dell’essere’, obnubilati da vaticini apo- calittici e da una profonda incomprensione dello scopo e del potere conoscitivo della scienza, così come della portata epistemologica e della funzione orientativa della tecnologia. Oggi l’auspicata emergenza di un cambio di prospettiva, di una riflessione prag- matico-critica sulla digitalizzazione del sapere e sulle pratiche di rappresentazione delle conoscenze hanno aperto nuove strade alla ricerca filosofica: abbandonato a se stesso lo scranno metafisico (perché ideologico e viceversa), la filosofia si è riscoperta nel trivio, è tornata nell’agorà per fare i conti con le procedure della rivoluzione informatica e documentale in atto, potendo disporre di un vasto e articolato bagaglio concettuale e metodologico con il fine, se non di comprendere, quantomeno di descrivere la nuova realtà plurale. A riprova del cambiamento di paradigma nel quale ci si trova, per farlo la filosofia non solo ha dovuto abbandonare ogni pretesa egemonica ma, anzi, ha fatto del carattere privativo di ogni pretesa fondazionale (sia essa filologica, informatica, linguistica o computazionale) la marca distintiva del nuovo umanesimo digitale. In questo contesto, la digitalizzazione delle pratiche di registrazione informatica, l’ordine di archiviazione dei dati e la diffusione disintermediata della conoscenza hanno chiamato in causa il discorso filosofico come riflessione generale ordinata e sovraordinata al particulare delle singole discipline. E lo hanno fatto non tanto come novità gerarchicamente ordinate quanto in base a schemi categoriali che, in una nuova varietà di modi, sono ritagliati a partire dalla realtà di cui essi sono indi- ci: è così che la relazione fra filosofia e digitale si prospetta proficua. La direzione da seguire è un crinale sottile, da cui è talvolta facile allontanarsi, cadendo nelle opposte tentazioni ideologiche tra apocalittici o integrati. In questo senso, la necessità di adottare un punto di vista costitutivamente con- diviso, che tenga cioè conto di tradizioni differenti, ha prodotto un volume mono- grafico in cui emergono non solo temi di discussione diversi, ma anche metodo- logie e punti di vista distinti. Questa pluralità di modi di analizzare la complessità della rivoluzione digitale, al di là delle tradizioni e delle verità, alle volte dissonanti, di cui esse sono portatrici, permette di superare la dicotomia per cui, se da un lato filosofia e digitale si trovano in una mutua correlazione, quasi un rapporto inscindibile di forma del pensiero e realtà (aprendo così la strada all’inserimento della filosofia nel dominio delle discipline umanistiche digitali), dall’altro lato il digitale fornirebbe solamente nuovi oggetti da studiare con i metodi tradizionali della filosofia. Sin dal saggio di apertura a questo volume, Biodiversità ed ecosistema digitale. Per una filosofia plurilingue e multiprospettica, Cristina Marras si incarica di andare oltre le dicotomie rigide e polarizzanti che spesso caratterizzano il dibattito sulla filosofia e il digitale per aprirsi invece al confronto critico-dialettico e pragmatico. Marras si concentra, infatti, sul ruolo svolto dalla filosofia (e sulle relative possibi- lità di sviluppo) di fronte agli interrogativi sorti con l’imporsi delle nuove tecnolo- gie, e lo fa mettendo a fuoco il rapporto tra filosofia e digitale su un duplice piano. Da una parte un’attenta disamina dello stato dei lavori per quanto attiene progetti e prospettive di filosofia digitale. Il loro contributo è cruciale per le pratiche di Digital Humanities e per una presa di coscienza critica dei linguaggi e degli schemi categoriali che li sostengono. Dall’altra parte, invece, l’analisi si muove bene al di là di ogni contrapposizione e mostra il ruolo della filosofia nel nuovo ecosistema digitale e nell’intricato panorama della quarta rivoluzione. Ciò avviene grazie al carattere multilinguistico e poliprospettico di una filosofia che crede nella capacità dei propri concetti di essere segnali che tracciano e mostrano possibili percor- si, porti e approdi a chi navighi nell’ecosistema. In tal modo si possono trovare proposte o risposte filosofiche, spesso all’interno stesso delle differenti discipline, in grado di superare le semplificazioni dicotomiche ancora una volta eredi delle due culture e dicotomie quali materiale/digitale, scienza/tecnologia, reale/virtuale, teoria/pratica. Un esempio di come la filosofia sia non solo un ricco serbatoio di idee, ma al contempo un medium culturale performante giunge dalla poetica di Aristotele, un testo chiave di tutte le teorie e pratiche narrative per oltre duemila anni, dalla tragedia attica alla sceneggiatura. La trasformazione digitale che ha investito anche il mondo del cinema e della televisione – ora si direbbe più in generale dei contenuti multimediali –, infatti, non può ancora oggi rinunciare a confrontarsi con le strut- ture narratologiche proposte da Aristotele. Del tema, a cavallo fra cultural e media studies, discute Luca Bandirali, nel cui saggio Nuovi abiti per la vecchia cerimonia: Aristotele e la narrativa digitale, risponde a una domanda semplice quanto fonda- mentale: che cosa è successo alla teoria poetica di Aristotele nell’era della fiction digitale, ovvero al tempo in cui i new media offrono prodotti narrativi che spazia- no dalle serie TV ai videogiochi? Le storie sono sempre le stesse oppure i nuovi media (e i nuovi utenti) le hanno cambiate per sempre? Bandirali prova a rispon- dere articolando il suo saggio su più livelli e attraverso numerosi casi di studio, muovendo da un’ipotesi ermeneutica persuasiva: innanzitutto, nella narrazione digitale le storie sono indipendenti dai media che le veicolano: esse si svincolano cioè dal canale in cui sono veicolate a favore di un processo crossmediale. Inoltre, seguono schemi, proprio come insegna Aristotele. I prodotti narrativi digitali, pertanto, ricorrono ad automatismi, nel senso che seguono degli script e delle for- mule ricorrenti; si basano su di un sistema causale, perché le storie sono catene di eventi collegati da rapporti di causa-effetto; utilizzano un processo meccanicistico, in quanto sono storie che non hanno fine. Si tratta, in tutti i casi, di dispositivi narrativi che, inevitabilmente, devono guardare al futuro, confrontandosi con le possibilità a cui abilitano i nuovi strumenti digitali, ma dall’altro devono fare i conti con le teorie che si svolgono secondo schemi genetici che Aristotele ha indi- cato con chiarezza e lungimiranza. Il contributo di Luigi Catalani, La tecnologia wiki come spazio per il dialogo operativo tra filosofia e informatica, è dedicato alle pratiche filosofiche legate al Wiki. Anche Catalani parte dall’esperienza e mostra come l’osservazione che l’aspetto tecnologico di quest’ultimo rischia di mettere in ombra costituisca non solo un potente strumento per produrre e gestire processi condivisi di forma- zione e archiviazione del sapere, ma anche e soprattutto un’occasione cruciale per il dialogo tra filosofia e digitale e per un’acquisita consapevolezza del po- tenziale epistemologico dei paradigmi digitali. A partire dal caso di studio della sperimentazione decennale condotta dall’Università di Salerno, nel quadro del corso di Computer Science applicata alle scienze filosofiche, Catalani fornisce un quadro delle cruciali questioni etiche e filosofiche che emergono dall’interazione tra i mondi della filosofia e del digitale: il rapporto tra memoria e responsabilità, il problema della verità e della postverità, l’organizzazione e classificazione dei saperi, i caratteri dei nuovi saperi digitali. Proprio sulle difficoltà della rappresentazione e organizzazione digitale del sa- pere filosofico e umanistico, per sua natura complesso e indeterminato, si con- centra il contributo di Alois Pichler, James M. Fielding, Nivedita Gangopadhyay, e Andreas L. Opdahl: Crisscross ontology: Mapping concept dynamics, competing argument and multiperspectival knowledge in philosophy. Gli autori del gruppo di ricerca internazionale sottolineano la necessità per la filosofia di una maggiore integrazione con metodi e strumenti computazionali al fine di poter modellizzare e rappresentare contenuti e concetti. Le ontologie computazionali, senza pretesa di esaustività o rigide formalizzazioni, consentirebbero di assumere una prospet- tiva cross-disciplinare e una visione della conoscenza multiprospettica che anco- ra mancherebbe alla disciplina filosofica per assumersi anche le sfide del digitale. L’ambiziosa visione del Web of meaning potrà diventare realtà quando la filosofia sarà capace di venir supportata da pratiche digitali e potrà essa stessa aspirare a svilupparle e crearle. Questo obiettivo, che è l’orizzonte teorico e pratico verso il quale la filosofia attualmente dovrebbe muovere secondo gli autori, è raggiungibile concretamente nella misura in cui non solo la filosofia assume le potenzialità delle scienze computazionali ma anche che le categorie proprie della filosofia, a volte contraddittorie, come per esempio contestualità, indeterminatezza, dinamica, ven- gano prese sul serio dalle scienze computazionali. Enrico Terrone con Digit-filosofia o filosofia del digitale? prende invece posizione contro l’idea che il digitale possa cambiare sostanzialmente il metodo della filosofia, aprendo così la strada all’inclusione della filosofia nel dominio delle di- scipline umanistiche digitali, sostenendo invece che il digitale fornisce solo nuovi oggetti da studiare con i metodi filosofici tradizionali. Il saggio muove dall’assunto che al cuore del progetto delle DH vi sia l’idea di avvalersi della tecnologia informatica in senso strumentale, per meglio gestire le moli di dati che costituiscono gli “input” delle discipline umanistiche. Tuttavia, la filosofia non muta di metodo e contenuti, nemmeno nei termini di una nuova forma di filosofia sperimentale, ovvero incline a un approccio empirico. Anche gli ambiti filosofici che sembrano intersecarsi con le scienze dell’informazione e con tecnologie digitali non assumo- no lo status di paradigma filosofico ma si risolvono, tutt’al più, in casi controversi e liminali. Insomma, la filosofia, per Terrone, ha un suo metodo e una sua specificità irriducibili, e si aggiorna rinnovando la sua funzione principale, ovvero riflettendo anche sul mondo digitale e sulle conseguenze della digitalizzazione. A fare quasi da contrappunto alla tesi di Terrone è quella di Fabio Ciracì discussa nel suo saggio Per una teoria critica del digitale: fake-news e postverità alla luce della logica della verosimiglianza. Le digital humanities rappresentano un’area complessa di studi, all’interno della quale le discipline umanistiche si intersecano con le scienze informatiche sia nella loro sfera applicativa, sia nella loro sfera teoretica. In particolare, la filosofia è condizionata dalla storia materiale e quindi anche dalla rivoluzione digitale, e gli strumenti digitali devono essere considerati a tutti gli effetti degli apriori storico-tecnologici dal potere non solo performante ma soprattutto trasformativo, di cui il pensiero umano e in massimo grado la filo- sofia devono tener conto. La tesi è dimostrata a partire dall’analisi dei fenomeni di fake-news e post-verità. Nel saggio vengono innanzitutto stabilite quali sono le condizioni di contesto che caratterizzano l’infosfera (information overload e man- canza di autorevolezza), per passare alla descrizione dell’attuale struttura dei social media, come luogo di specifiche strategie di comunicazione (filter-bubble ed echo- chamber). Successivamente, viene analizzata la struttura logica della plausibilità, indicata come caratteristica della diffusione di fake-news. Infine, Ciracì propone una teoria critica del digitale che prova ad integrare le teorie dei media mutativi, dell’infosfera e della documedialità secondo un approccio interdisciplinare. La scrittura stratificata di un software o la complessa realizzazione di una mac- china elettronica sono invece l’oggetto di studio del saggio Macchine? di Mario Bochicchio e di Simona Corciulo che, a partire dall’analisi del passaggio dal modello imitativo mente-computer al suo modello funzionale, ne indagano le ricadute sul principio di attribuzione dell’autorialità. Se infatti individuare l’autore di un testo classico è un’operazione piuttosto semplice e immediata – la Divina commedia è il capolavoro di Dante – più complesso e arduo invece è riconoscere la paternità di un software o di una macchina automatica, perché realizzati su più livelli, da più autori, in un sistema di condizionamento reciproco che mette in crisi il paradigma classico dell’autorialità. Il saggio si chiude con una riflessione sulla percezione, da parte del fruitore, di una ‘presenza aliena’ nella macchina, derivata dall’evapora- zione, nel processo di realizzazione, di una autorialità riconoscibile, a vantaggio dell’emulazione di una autonomia ontologica che la macchina non possiede. Nella sua analisi delle trasformazioni a cui l’autorialità sta andando incontro nel contesto magmatico del web, Roberto Limonta mostra come tali cambiamenti impli- chino il sorgere e l’affermarsi di un nuovo genere di pratiche di lettura, che comportano la necessità di ridefinire cosa di volta in volta intendiamo per ‘testo’, ‘editoria’, ‘proprietà intellettuale’, ‘autore’ e ‘autorialità’ dopo la rivoluzione digitale e l’ingres- so nell’infosfera. Il saggio I diritti dell’algoritmo: per una ontologia dell’autorialità digitale analizza l’autorialità digitale alla luce dell’ontologia sociale di John Searle e del concetto di confini fiat e bona fide di Barry Smith, per concentrarsi sulla natura relazionale e dinamica dei testi digitali sul Web e sulle pratiche di lettura che vi si le- gano: in questa prospettiva, i diritti di proprietà intellettuale – e la definizione stessa di autorialità – non svolgono più il ruolo di oggetti di negoziazione, come nel dibatti- to storico a partire dal XVIII secolo, ma diventano attributi dell’algoritmo di ricerca e si impongono quindi come condizioni necessarie per il funzionamento dell’intero sistema della comunicazione digitale. La recente direttiva 2019/790 del Parlamento Europeo è il case study sul quale gli strumenti di questa ontologia sociale sono stati testati, in un contesto di ontologia storica e di storia della lettura. La definizione di oggetto digitale è al centro della riflessione di Riccardo Fedriga proposta nel suo contributo Eventi digitali. Riflessione che va al cuore di questioni cruciali quali per esempio il rapporto fondazionale tra finzione e realtà, i confini tra libertà e determinismo digitale, Realtà Aumentata e Realtà Virtuale nelle Realtà Estese, il ruolo performativo degli utenti. Proprio nel contesto della Realtà Aumentata, che ha una eminente dimensione realistica che manca per esempio alla Realtà Virtuale, considerare gli oggetti sociali nella loro dimensione digitale come artefatti significa liberarli dalla dipendenza dal supporto e riportare l’attenzione sulla fruizione che diventa dinamica e multisensoriale. La Realtà Aumentata fornisce infatti una più ampia interattività digitale. Questo assunto è argomentato attraverso una serie di esempi e casi studio: la Realtà Aumentata diventa importan- te ed efficace per esempio nella didattica online, nella crossmedialità per le letture digitali, come strumento multisensoriale per persone con difficoltà visive o uditive. L’estensione della Realtà Aumentata e della Mixed Reality ha poi ampio utilizzo non solo nell’accesso ma anche nella preservazione del patrimonio culturale. La domanda filosofica ed epistemologica che si pone è dunque quella dello statuto degli oggetti digitali e dei loro significati. Il dialogo-intervista e l’articolo di Stefan Gruner Digital Humanities and Trans Humanities – Some Research Problems for the Humanities of the Not-Too-Far Fu- ture rispondono alla coralità e alla dialettica che la diversità di posizioni ed espe- rienze fanno emergere nella riflessione sul rapporto tra filosofia e digitale che ca- ratterizza questo numero speciale. Con Gruner spostiamo direttamente il punto di vista, oltre che sull’emisfero australe, proprio sulle scienze computazionali. Ab- biamo infatti chiesto all’autore che insegna ‘computational science’ a Pretoria, ma che per sua formazione presenta spesso una marcata contestualizzazione filosofica, di discutere con noi il concetto di ‘computazione’ e di ‘digital humanities’ sia in prospettiva storica, sia alla luce delle sfide che la tecnologica pone attualmente alle discipline umanistiche. La domanda che fa da sfondo all’intervista e all’articolo e sulla quale Gruner si concentra, è se e come le scienze umanistiche, a partire da alcuni concetti chiave quali interpretazione, apprendimento, memoria, siano attualmente capaci di far fronte alla sfida delle tecnologie e in che misura, e quali siano gli strumenti e le categorie specifiche che possono mettere in gioco. Il rischio secondo Gruner è quello di assumere rigide posizioni di determinismo digitale e che le Humanities si trovino in una fase critica che le costringe ad arretrare nelle loro specificità e a perdere posizione rispetto all’avanzare proprio della tecnologia. Si tratta ovviamente di orientamenti diversi, che però si configurano come mo- menti dialettici della discussione, senza la pretesa di pervenire a una sintesi. Va detto anche che la maggior parte dei saggi invitati a contribuire alla discussione si muovono, pur nella differenza dei paradigmi concettuali e delle prospettive che assumono, nel contesto di una concezione della filosofia come sapere pratico ed esperienza teoretica sperimentale, quella métis o intelligenza pratica tanto cara alla sapienza greca da farne addirittura una dea. L’etica delle macchine e le sfide della Realtà Aumentata, lo statuto dell’informatica umanistica o l’ontologia dell’autorialità sul web, postverità e mappatura ontologica del digitale, tutti questi temi si incontrano non tanto nei contenuti, o nei limiti di una disciplina (la filosofia digitale o del digitale), quanto nei modi con cui sono indagati, a partire da ciò che è storicamente dato, dal realismo dei fenomeni in atto e dei case studies analizzati. L’idea infatti non è quella di condurre a una scelta tra le varie posizioni. Quantomeno non solo. Non abbastanza. Le architetture digitali, così come le piattaforme giganti più o meno ancorate al largo del web nell’ecosistema digitale, dovrebbero permettere agli uomini di andare dove vogliono, e non dove devono andare. Ma avere la volontà ancora non significa sapere come e dove andare. In molti casi, infatti, si sa molto bene quello che si vuole ma il problema è arrivarci. Tra ciò che vogliamo prima di scegliere, infatti, e ciò che avremmo voluto – una volta compiuta la scelta – c’è una sostanzia- le differenza (di capacità, di autocontrollo, di alfabetizzazione, di social divide, di status giuridico, di genere, antropologica, biologica...). Una dicotomia che tende ad assottigliarsi quando, e se, si rimuovono gli ostacoli che limitano la libertà impe- dendo di giungere alla meta desiderata, come individui e come società. La libertà di scelta è certamente fondamentale, ma non basta se qualcuno non semplifica e non permette una consapevole navigazione nell’ecosistema digitale. Promuovere la navigazione in modo che sia semplice e utile, che superi gli ostacoli della fram- mentazione e della granularità del sapere in ambiente digitale6, è allora compito della mediazione di quegli architetti della scelta che sono gli Umanisti Digitali7. Ciò vale tanto nell’affrontare i problemi più complessi quanto quelli più comuni, tanto quelli più remoti quanto quelli più prossimi; a partire dall’insegnamento uni- versitario e dalla ricerca filosofica e arrivare, così, a un concreto coinvolgimento delle istituzioni e delle comunità scientifiche a sostegno dello sviluppo sinergico di contenuti e tecnologie8. Quando la comunità scientifica sentirà la responsabilità della cura delle risorse digitali, e non le darà per date e solo come funzionali alla ricerca, ma le intenderà come una opportunità di collaborazione, di creazione e di riflessione di conoscenza condivisa, allora potremmo immaginare di entrare in una dimensione aperta della ricerca. Si tratta di individuare percorsi d’azione e di intervento pratico e, soprattutto, di superare gli ostacoli a ricerche utili ed efficaci, per loro natura interdisciplinari: attivare e tematizzare sempre più frequenti zone di intersezione e osmosi, dar vita a progetti, pubblicazioni, piattaforme interope- rabili. Un lavoro che non può essere affidato ai singoli ma alla cooperazione tra studiosi e in cui la formazione gioca un ruolo centrale. Poi è chiaro che non sta a noi decidere se Achab catturerà o meno la Balena, perché sarebbe empio. Tanto più che la Balena va dove vuole. Ma è certo che, grazie ai labirinti digitali, rendere gli oceani delle biosfere più navigabili per le forme di vita che le abitano potrebbe non essere un’impresa così ardua. F. Ciracì, R. Fedriga, C. Marras Lecce, Milano, Roma, settembre 2020I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.