Nel secondo dopoguerra, le relazioni politiche e diplomatiche tra l’Italia e la Jugoslavia furono caratterizzate da incomprensioni, ostilità e polemiche, dovute soprattutto - anche se non esclusivamente - alla questione di Trieste, il lungo e sofferto contenzioso territoriale che per molti anni divise i due paesi adriatici. Dopo la sconfitta subita dall’Italia e il tentativo jugoslavo di impossessarsi di Trieste e di gran parte dalla Venezia Giulia, il trattato di pace del 1947 stabilì che tutto il territorio italiano ad Est della linea Tarvisio - Monfalcone fosse assegnato alla Jugoslavia ad eccezione di una ristretta fascia costiera comprendente Trieste (zona A), occupata dagli anglo-americani, e Capodistria (zona B), sotto occupazione jugoslava. In base al trattato, questa fascia costiera avrebbe costituito il Territorio Libero di Trieste, da erigersi formalmente attraverso la nomina di un governatore da parte del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Tuttavia, lo scoppio della guerra fredda e la divisione dell’Europa in blocchi politici contrapposti resero impossibile la costituzione del TLT, trasformando la questione di Trieste da problema locale a variante adriatica della cortina di ferro, alla luce delle opposte scelte di campo effettuate dall'Italia repubblicana e dalla Jugoslavia socialista. La successiva rottura tra Tito e Stalin e il conseguente avvicinamento di Belgrado al blocco occidentale spinsero gli anglo-americani a favorire una soluzione di compromesso provvisoria sancita dal Memorandum di Londra del 5 ottobre 1954, che di fatto stabiliva la spartizione del TLT, affidando l’amministrazione della Zona A con Trieste alle autorità italiane e della Zona B a quelle jugoslave. A Belgrado e a Roma, però, si maturarono opinioni diametralmente opposte sul significato e la portata dell’intesa appena raggiunta. Per gli uomini di governo italiani, si trattava di una soluzione provvisoria, che non prevedeva alcuna cessione definitiva di sovranità e che lasciava sussistere intatta la teorica aspirazione di un futuro ritorno all’Italia di tutto il territorio destinato al TLT. Al contrario, per Belgrado l’accordo del 1954 rappresentava la chiusura di fatto della vertenza territoriale, in attesa che da parte italiana si riconoscesse anche formalmente l’estensione della sovranità jugoslava sulla Zona B. Fu solo negli Sessanta, dopo l'avvio in Italia della stagione dei governi di centro-sinistra, che Roma e Belgrado, rimaste per anni arroccate sulle proprie posizioni, iniziarono a dialogare dando vita al lungo negoziato che dal 1968 in poi, attraverso varie fasi e battute d'arresto, portò alla firma degli accordi di Osimo del novembre 1975. All’interno della nuova maggioranza di governo, confluirono forze e personalità politiche della sinistra non comunista, attente ai progressi del socialismo jugoslavo, e sensibili alle esigenze di sicurezza e di crescita economica della vicina Federazione, paese non allineato, diventato una sorta di Stato «cuscinetto» tra l'Italia e il blocco sovietico. Alla luce dell'importanza politica e strategica del regime di Belgrado, divenuta ancor più evidente dopo le vicende cecoslovacche del 1968, con l'ingresso a Praga delle truppe del Patto di Varsavia, i socialisti e i socialdemocratici italiani (soprattutto, i rispettivi leader Pietro Nenni e Giuseppe Saragat) ritenevano che ormai fosse giunto il momento di chiudere la vertenza territoriale e stabilizzare il confine, per consolidare il regime di Belgrado, minacciato dal riemergere dei contrasti nazionali interni. Tuttavia, la vera novità della politica italiana, in grado di cambiare definitivamente l’andamento negativo dei rapporti bilaterali, fu la presenza nei governi di centro-sinistra di Aldo Moro, leader del principale partito della coalizione, la Democrazia Cristiana, nonché presidente del Consiglio dei Ministri e ministro degli Esteri a più riprese tra il 1963 e il 1976. Contrariamente a quanto affermato dai suoi predecessori sia alla guida del governo, che del suo stesso partito, secondo i quali l’intero TLT o, in alternativa, la maggior parte di esso sarebbe dovuto tornare all’Italia data la provvisorietà dell’intesa raggiunta nel 1954, Moro era convinto che la sistemazione territoriale stabilita dal Memorandum di Londra fosse ormai «non modificabile con la forza» e «non modificabile con il consenso». Per il leader DC e per i diplomatici italiani che ne sostennero l'azione, lo status giuridico e territoriale fissato dal Memorandum andava rispettato senza apportare cambiamenti e le «sfere territoriali» risultanti da esso (che configuravano la spartizione di fatto del TLT) erano «fuori questione» e «fuori discussione». Moro, però, si rendeva anche conto che una soluzione della questione di Trieste basata sulla divisione del TLT lungo la linea di demarcazione del 1954 avrebbe suscitato numerose reazioni contrarie, sia a livello locale (anche all’interno della stessa DC triestina), che a livello nazionale, negli ambienti dell’estrema destra. Per questo, riteneva necessaria l'adozione graduale e meditata di una «soluzione globale», che non solo tenesse conto degli aspetti territoriali e confinari, ma che prevedesse anche misure in grado di garantire concreti vantaggi economici per le popolazioni italiane di confine e di rilanciare lo sviluppo locale, unico corrispettivo possibile per la perdita definitiva della Zona B. In conclusione, l’accordo con la Jugoslavia – secondo Moro - non doveva essere visto come una rinuncia italiana alla zona B, perché non si poteva rinunciare a qualcosa che ormai non apparteneva più al paese dai tempi della guerra e del trattato di pace, ma come l’acquisizione di un vantaggio non solo territoriale (la città di Trieste, che il trattato del ’47 aveva lasciato al di fuori dei confini nazionali), ma anche strategico, politico ed economico, attraverso la stabilizzazione dei confini orientali e dell'area adriatica, e il rilancio della partnership italo-jugoslava.

La politica estera italiana e la soluzione della questione di Trieste: gli accordi di Osimo del 1975

BUCARELLI, MASSIMO
2013-01-01

Abstract

Nel secondo dopoguerra, le relazioni politiche e diplomatiche tra l’Italia e la Jugoslavia furono caratterizzate da incomprensioni, ostilità e polemiche, dovute soprattutto - anche se non esclusivamente - alla questione di Trieste, il lungo e sofferto contenzioso territoriale che per molti anni divise i due paesi adriatici. Dopo la sconfitta subita dall’Italia e il tentativo jugoslavo di impossessarsi di Trieste e di gran parte dalla Venezia Giulia, il trattato di pace del 1947 stabilì che tutto il territorio italiano ad Est della linea Tarvisio - Monfalcone fosse assegnato alla Jugoslavia ad eccezione di una ristretta fascia costiera comprendente Trieste (zona A), occupata dagli anglo-americani, e Capodistria (zona B), sotto occupazione jugoslava. In base al trattato, questa fascia costiera avrebbe costituito il Territorio Libero di Trieste, da erigersi formalmente attraverso la nomina di un governatore da parte del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Tuttavia, lo scoppio della guerra fredda e la divisione dell’Europa in blocchi politici contrapposti resero impossibile la costituzione del TLT, trasformando la questione di Trieste da problema locale a variante adriatica della cortina di ferro, alla luce delle opposte scelte di campo effettuate dall'Italia repubblicana e dalla Jugoslavia socialista. La successiva rottura tra Tito e Stalin e il conseguente avvicinamento di Belgrado al blocco occidentale spinsero gli anglo-americani a favorire una soluzione di compromesso provvisoria sancita dal Memorandum di Londra del 5 ottobre 1954, che di fatto stabiliva la spartizione del TLT, affidando l’amministrazione della Zona A con Trieste alle autorità italiane e della Zona B a quelle jugoslave. A Belgrado e a Roma, però, si maturarono opinioni diametralmente opposte sul significato e la portata dell’intesa appena raggiunta. Per gli uomini di governo italiani, si trattava di una soluzione provvisoria, che non prevedeva alcuna cessione definitiva di sovranità e che lasciava sussistere intatta la teorica aspirazione di un futuro ritorno all’Italia di tutto il territorio destinato al TLT. Al contrario, per Belgrado l’accordo del 1954 rappresentava la chiusura di fatto della vertenza territoriale, in attesa che da parte italiana si riconoscesse anche formalmente l’estensione della sovranità jugoslava sulla Zona B. Fu solo negli Sessanta, dopo l'avvio in Italia della stagione dei governi di centro-sinistra, che Roma e Belgrado, rimaste per anni arroccate sulle proprie posizioni, iniziarono a dialogare dando vita al lungo negoziato che dal 1968 in poi, attraverso varie fasi e battute d'arresto, portò alla firma degli accordi di Osimo del novembre 1975. All’interno della nuova maggioranza di governo, confluirono forze e personalità politiche della sinistra non comunista, attente ai progressi del socialismo jugoslavo, e sensibili alle esigenze di sicurezza e di crescita economica della vicina Federazione, paese non allineato, diventato una sorta di Stato «cuscinetto» tra l'Italia e il blocco sovietico. Alla luce dell'importanza politica e strategica del regime di Belgrado, divenuta ancor più evidente dopo le vicende cecoslovacche del 1968, con l'ingresso a Praga delle truppe del Patto di Varsavia, i socialisti e i socialdemocratici italiani (soprattutto, i rispettivi leader Pietro Nenni e Giuseppe Saragat) ritenevano che ormai fosse giunto il momento di chiudere la vertenza territoriale e stabilizzare il confine, per consolidare il regime di Belgrado, minacciato dal riemergere dei contrasti nazionali interni. Tuttavia, la vera novità della politica italiana, in grado di cambiare definitivamente l’andamento negativo dei rapporti bilaterali, fu la presenza nei governi di centro-sinistra di Aldo Moro, leader del principale partito della coalizione, la Democrazia Cristiana, nonché presidente del Consiglio dei Ministri e ministro degli Esteri a più riprese tra il 1963 e il 1976. Contrariamente a quanto affermato dai suoi predecessori sia alla guida del governo, che del suo stesso partito, secondo i quali l’intero TLT o, in alternativa, la maggior parte di esso sarebbe dovuto tornare all’Italia data la provvisorietà dell’intesa raggiunta nel 1954, Moro era convinto che la sistemazione territoriale stabilita dal Memorandum di Londra fosse ormai «non modificabile con la forza» e «non modificabile con il consenso». Per il leader DC e per i diplomatici italiani che ne sostennero l'azione, lo status giuridico e territoriale fissato dal Memorandum andava rispettato senza apportare cambiamenti e le «sfere territoriali» risultanti da esso (che configuravano la spartizione di fatto del TLT) erano «fuori questione» e «fuori discussione». Moro, però, si rendeva anche conto che una soluzione della questione di Trieste basata sulla divisione del TLT lungo la linea di demarcazione del 1954 avrebbe suscitato numerose reazioni contrarie, sia a livello locale (anche all’interno della stessa DC triestina), che a livello nazionale, negli ambienti dell’estrema destra. Per questo, riteneva necessaria l'adozione graduale e meditata di una «soluzione globale», che non solo tenesse conto degli aspetti territoriali e confinari, ma che prevedesse anche misure in grado di garantire concreti vantaggi economici per le popolazioni italiane di confine e di rilanciare lo sviluppo locale, unico corrispettivo possibile per la perdita definitiva della Zona B. In conclusione, l’accordo con la Jugoslavia – secondo Moro - non doveva essere visto come una rinuncia italiana alla zona B, perché non si poteva rinunciare a qualcosa che ormai non apparteneva più al paese dai tempi della guerra e del trattato di pace, ma come l’acquisizione di un vantaggio non solo territoriale (la città di Trieste, che il trattato del ’47 aveva lasciato al di fuori dei confini nazionali), ma anche strategico, politico ed economico, attraverso la stabilizzazione dei confini orientali e dell'area adriatica, e il rilancio della partnership italo-jugoslava.
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