Il 15 aprile del 1986, poco prima delle 2 di mattina, alcuni velivoli militari statunitensi diedero inizio a un attacco aereo contro le città libiche di Tripoli e Bengasi. L’intervento militare arrivava dopo anni di attentati contro obiettivi civili e militari americani, organizzati e compiuti grazie all'appoggio assicurato ai gruppi terroristici dalle autorità di vari paesi arabi e islamici, in particolare da Libia, Siria e Iran. Il terrorismo non era certo un fenomeno nuovo, tuttavia il crescente sostegno dato ai movimenti eversivi dalla Libia e da altri Stati mediorientali aveva trasformato le organizzazioni terroristiche in una sorta di «arma da guerra non convenzionale», usata soprattutto contro le democrazie occidentali. Per il presidente Reagan e il governo statunitense, era odioso e inaccettabile il fatto che alcuni governi mettessero a disposizione dei terroristi armi, soldi, passaporti falsi, rifugi sicuri e campi di addestramento, pur di sfruttare senza scrupolo alcuno le ricadute politiche delle violenze terroristiche; gli attentati erano diventati ormai uno strumento di politica internazionale, utili a impedire o sabotare processi politici contrari agli interessi di determinati paesi, ma senza che questi stessi paesi fossero costretti ad assumersi responsabilità dirette e subissero censure e ritorsioni . Ancora più grave e intollerabile agli occhi della amministrazione repubblicana era, ovviamente, il fatto che i cittadini americani fossero diventati i principali obiettivi del terrorismo internazionale . Il numero delle operazioni e degli attentati contro civili e militari statunitensi aumentò considerevolmente dalla fine degli anni Settanta in poi, dando vita a una vera e propria spirale di violenza anti-americana, che caratterizzò tutto il periodo della presidenza Reagan. L’escalation della crisi libico-statunitense di metà anni Ottanta, culminata negli scontri militari del Golfo della Sirte, nel bombardamento di Tripoli e Bengasi e nel lancio dei missili libici su Lampedusa, incise inevitabilmente anche nella sostanza della politica libica del governo italiano, stretto tra la solidarietà all'alleato statunitense e la salvaguardia degli interessi nazionali (politici, strategici, energetici ed economici) nel Mediterraneo e in Nord Africa. La politica del «doppio binario», alleati di Washington, ma anche amici di Tripoli, produsse un risultato importante, riuscendo a preservare l’incolumità delle migliaia di lavoratori italiani residenti in Libia. Tuttavia, non fu sufficiente a impedire che la crescente tensione libico-statunitense degenerasse in uno scontro militare. La determinazione dell’amministrazione Reagan di intervenire contro il terrorismo e colpire i regimi conniventi e complici, quello libico su tutti, per risolvere con la forza delle armi e non della politica un problema di sicurezza nazionale, ridusse ogni margine di manovra diplomatica a disposizione del governo italiano, guidato da Bettino Craxi e con Giulio Andreotti agli Esteri (sul cui Archivio privato, conservato presso l'Istituto Sturzo, è basato il saggio). La politica italiana del dialogo con Gheddafi e della ricerca della mediazione utile a scongiurare l’escalation della crisi libico-statunitense – condotta soprattutto da Andreotti, senza, forse, il convinto sostegno di tutto l’esecutivo – non poté produrre gli effetti sperati. Le crescenti tensioni arrivarono a un punto di gravità tale che divenne impossibile continuare a rimanere in equilibrio tra solidarietà atlantica e tutela degli interessi nel Mediterraneo; gli avvenimenti di quei mesi, a partire dagli attentati terroristici di Roma e Vienna, fino ai missili su Lampedusa, spinsero i governanti italiani a compiere quella scelta, di maggiore fermezza e minore disponibilità nei confronti delle autorità di Tripoli, che avevano a lungo tentato di evitare, facendo presente ai propri alleati statunitensi le difficoltà cui sarebbe andata incontro l’Italia, dal punto di vista politico ed economico, nelle relazioni con un paese vicino così importante e particolare come la Libia. La crisi sirtica non portò alla rottura dei rapporti tra Roma e Tripoli, ma causò senz’altro un raffreddamento a livello politico e complicazioni in campo economico e commerciale, rimettendo parzialmente in discussione il difficile lavoro di riavvicinamento svolto da Andreotti a partire dal 1983, da quando aveva assunto la responsabilità degli Affari Esteri

L’Italia e «l’ossessione libica» dell’amministrazione Reagan

Massimo Bucarelli
2018-01-01

Abstract

Il 15 aprile del 1986, poco prima delle 2 di mattina, alcuni velivoli militari statunitensi diedero inizio a un attacco aereo contro le città libiche di Tripoli e Bengasi. L’intervento militare arrivava dopo anni di attentati contro obiettivi civili e militari americani, organizzati e compiuti grazie all'appoggio assicurato ai gruppi terroristici dalle autorità di vari paesi arabi e islamici, in particolare da Libia, Siria e Iran. Il terrorismo non era certo un fenomeno nuovo, tuttavia il crescente sostegno dato ai movimenti eversivi dalla Libia e da altri Stati mediorientali aveva trasformato le organizzazioni terroristiche in una sorta di «arma da guerra non convenzionale», usata soprattutto contro le democrazie occidentali. Per il presidente Reagan e il governo statunitense, era odioso e inaccettabile il fatto che alcuni governi mettessero a disposizione dei terroristi armi, soldi, passaporti falsi, rifugi sicuri e campi di addestramento, pur di sfruttare senza scrupolo alcuno le ricadute politiche delle violenze terroristiche; gli attentati erano diventati ormai uno strumento di politica internazionale, utili a impedire o sabotare processi politici contrari agli interessi di determinati paesi, ma senza che questi stessi paesi fossero costretti ad assumersi responsabilità dirette e subissero censure e ritorsioni . Ancora più grave e intollerabile agli occhi della amministrazione repubblicana era, ovviamente, il fatto che i cittadini americani fossero diventati i principali obiettivi del terrorismo internazionale . Il numero delle operazioni e degli attentati contro civili e militari statunitensi aumentò considerevolmente dalla fine degli anni Settanta in poi, dando vita a una vera e propria spirale di violenza anti-americana, che caratterizzò tutto il periodo della presidenza Reagan. L’escalation della crisi libico-statunitense di metà anni Ottanta, culminata negli scontri militari del Golfo della Sirte, nel bombardamento di Tripoli e Bengasi e nel lancio dei missili libici su Lampedusa, incise inevitabilmente anche nella sostanza della politica libica del governo italiano, stretto tra la solidarietà all'alleato statunitense e la salvaguardia degli interessi nazionali (politici, strategici, energetici ed economici) nel Mediterraneo e in Nord Africa. La politica del «doppio binario», alleati di Washington, ma anche amici di Tripoli, produsse un risultato importante, riuscendo a preservare l’incolumità delle migliaia di lavoratori italiani residenti in Libia. Tuttavia, non fu sufficiente a impedire che la crescente tensione libico-statunitense degenerasse in uno scontro militare. La determinazione dell’amministrazione Reagan di intervenire contro il terrorismo e colpire i regimi conniventi e complici, quello libico su tutti, per risolvere con la forza delle armi e non della politica un problema di sicurezza nazionale, ridusse ogni margine di manovra diplomatica a disposizione del governo italiano, guidato da Bettino Craxi e con Giulio Andreotti agli Esteri (sul cui Archivio privato, conservato presso l'Istituto Sturzo, è basato il saggio). La politica italiana del dialogo con Gheddafi e della ricerca della mediazione utile a scongiurare l’escalation della crisi libico-statunitense – condotta soprattutto da Andreotti, senza, forse, il convinto sostegno di tutto l’esecutivo – non poté produrre gli effetti sperati. Le crescenti tensioni arrivarono a un punto di gravità tale che divenne impossibile continuare a rimanere in equilibrio tra solidarietà atlantica e tutela degli interessi nel Mediterraneo; gli avvenimenti di quei mesi, a partire dagli attentati terroristici di Roma e Vienna, fino ai missili su Lampedusa, spinsero i governanti italiani a compiere quella scelta, di maggiore fermezza e minore disponibilità nei confronti delle autorità di Tripoli, che avevano a lungo tentato di evitare, facendo presente ai propri alleati statunitensi le difficoltà cui sarebbe andata incontro l’Italia, dal punto di vista politico ed economico, nelle relazioni con un paese vicino così importante e particolare come la Libia. La crisi sirtica non portò alla rottura dei rapporti tra Roma e Tripoli, ma causò senz’altro un raffreddamento a livello politico e complicazioni in campo economico e commerciale, rimettendo parzialmente in discussione il difficile lavoro di riavvicinamento svolto da Andreotti a partire dal 1983, da quando aveva assunto la responsabilità degli Affari Esteri
2018
978-88-382-4657-9
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